Stemma Cardinalizio

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Creato Cardinale 25.05.1985

Storia personale

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TZADUA, Paulos (1921-2003) Birth . August 25, 1921, Addifini, eparchy of Asmara of Eritreans, Eritrea. Education . Seminary of Cheren, Asmara; Italian Lyceum "Ferdinando Martini", Asmara; Catholic University of Sacred Heart, Milan, Italy (doctorate in law). Priesthood . Ordained, March 12, 1944. Pastoral work in Asmara, 1944-1946; in the mission of Guarghe, south of Addis Abeba, 1946-1949. In Eritrea, faculty member, Minor Seminary, 1949-1953; further studies, Asmara, 1949-1953; in Milan, Italy, 1953-1958. Secretary to the bishop of Asmara and to the archbishop of Addis Abeba, 1960-1961. Secretary general of the Episcopal Conference of Ethiopia. In Addis Abeba, pastoral work with university students and service as archdiocesan curia official; faculty member, University of Addis Abeba, 1961-1973.

giovedì 21 maggio 2009

Martini: porte aperte ai fedeli cattolici divorziati e risposati

La Chiesa cerchi una soluzione al problema Anche il celibato dei preti si può discutere
Carlo Maria Martini — Non so se sono sveglio o sto sognando. So che mi trovo completamente al buio, mentre un lento sciabordio mi fa pensare che sono su una barca che scivola via sull’acqua. Cerco a tastoni di stabilire meglio il luogo in cui mi trovo emi accorgo che vicino ame vi è un albero, forse l’albero maestro dell’imbarcazione. A poco a poco mi avvicino così da potermi aggrappare a esso con le mani, per avere un po’ di sicurezza e di stabilità nei sempre più frequenti moti della barca sulle onde. In questo tentativo incontro qualcosa che mi sembra come una mano d’uomo. Forse è un altro passeggero che sta cercando anche lui di appoggiarsi all’albero maestro. Non so chi sia, come non so io stesso come mi sia trovato su questa barca. Ma il tocco di quella mano mi dà fiducia: mi spingo avanti così da poterla stringere ed esprimere la mia solidarietà con qualcuno in quell’oscurità che mette i brividi. Vorrei anche tentare di dire qualcosa, pur non sapendo se il mio compagno di barca capisce l’italiano.

Ma nel frattempo lui inizia a farmi qualche breve domanda, a cui sono lieto di rispondere. Si tratta di una persona che non conoscevo, ma di cui avevo sentito parlare. Mi colpiva il suo interesse per me in quel momento difficile, in cui ciascuno avrebbe voglia di pensare solo a se stesso. Dialogando così nella notte fonda, in quel momento di incertezza e anche di pericolo si videro a poco a poco spuntare le prime luci dell’alba. Riconobbi il luogo in cui mi trovavo: eravamo noi due soli in barca. E usando alcuni remi che trovammo in fondo a essa, ci mettemmo a remare verso la riva, fermandoci ogni tanto per assaporare la tranquillità del lago. Ci siamo detti molte cose in quelle ore. È venuto chiaramente alla luce durante la conversazione che eravamo tanto diversi l’uno dall’altro. Ma ci rispettavamo come persone e ci amavamo come figli di Dio. Anche il fatto di trovarci sulla stessa barca ci permetteva di comprenderci e di accoglierci, così come eravamo. Tra le prime cose che ci siamo detti c’è naturalmente un poco di autopresentazione. Così ho appreso che il mio interlocutore aveva nientemeno che ottantanove anni, mentre io ne avevo ottantadue. Don Luigi Verzé (tale appresi poi essere il nome di colui che viaggiava con me) presentava la sua vita come quella di uno che aveva vissuto sessantuno anni di sacerdozio. (...)

Luigi Maria Verzé — Quanto è cambiata ora la valutazione etica ecclesiastica, rispetto a quella imposta ai tempi della mia infanzia. D’altra parte, poiché la moralità è imperativo categorico, la gente si fa una propria etica laica e la Chiesa resta con un’etica cristiana incongruente perché incondivisa dagli stessi devoti. Ricordo, per esempio, che nella mia visita alle favelas del Brasile frequentemente mi incontravo con povere donne senza marito con un bimbo in seno, un altro in braccio e una sfilza di altri che le seguivano, tutti prodotti di diversi mariti. Era giocoforza concludere che la pillola anticoncezionale andava consigliata e fornita. Il Brasile, totalmente cattolico fino agli anni Ottanta, ora è disseminato di chiese e chiesuole semicristiane, organizzate però sui bisogni anche spiccioli della gente. La Chiesa cattolica è troppo lontana dalla realtà, e le fiumane di gente, quando arriva il Papa, hanno più o meno il valore delle carnevalate e delle feste per la dea Iemanjà, l’antica Venere cui tutti, compreso il prefetto cristiano, gettano tributi floreali. La Chiesa, più che vivere, sopravvive sulle ossa degli eroici primi missionari. E poiché siamo in tema di morale pratica, che cosa dice, Eminente Padre, della negazione dei sacramenti a devotissimi divorziati? Io penso che anche ai sacerdoti dovrebbe essere presto tolto l’obbligo del celibato, poiché temo che per molti il celibato sia una finzione. E non sarebbe più vantaggioso che la consacrazione dei vescovi avvenisse su acclamazione del popolo di Dio, oggi così estraneo ai fatti della Chiesa? Forse non si è ancora maturi per tutto questo, ma Lei non crede che siano temi ai quali si dovrebbe pensare pregando lo Spirito?

Carlo Maria Martini — Oggi ci sono non poche prescrizioni e norme che non sempre vengono capite dal semplice fedele. Per questo, la Chiesa appare un po’ troppo lontana dalla realtà. Purtroppo sono d’accordo che le fiumane di gente che vanno a manifestazioni religiose non sempre le vivono con profondità. Occorre prepararle, e occorre dopo dare un seguito di riflessione nell’ambito della parrocchia o del gruppo. Non credo, però, che si possa dire che in Paesi come il Brasile, la Chiesa non vive ma sopravvive soltanto sulle ossa dei primi eroici missionari. La Chiesa vive là anche su gente semplice, umile, che fa il proprio dovere, che ama, che sa comprendere e perdonare. È questa la ricchezza delle nostre comunità. Tanti laici di queste nazioni e anche tanti laici vicino a noi sono seri e impegnati. Lei mi chiede che cosa penso della negazione dei sacramenti a devotissimi divorziati. Io mi so no rallegrato per la bontà con cui il Santo Padre ha tolto la scomunica ai quattro vescovi lefebvriani. Penso, però, con tanti altri, che ci sono moltissime persone nella Chiesa che soffrono perché si sentono emarginate e che bisognerebbe pensare anche a loro. E mi riferisco, in particolare, ai divorziati risposati. Non a tutti, perché non dobbiamo favorire la leggerezza e la superficialità, ma promuovere la fedeltà e la perseveranza.

Ma vi sono alcuni che oggi sono in stato irreversibile e incolpevole. Hanno magari assunto dei nuovi doveri verso i figli avuti dal secondo matrimonio, mentre non c’è nessun motivo per tornare indietro; anzi, non si troverebbe saggio questo comportamento. Ritengo che la Chiesa debba trovare soluzioni per queste persone. Ho detto spesso, e ripeto ai preti, che essi sono formati per costruire l’uomo nuovo secondo il Vangelo. Ma in realtà debbono poi occuparsi anche di mettere a posto ossa rotte e di salvare i naufraghi. Sono contento che la Chiesa mostri in alcuni casi benevolenza e mitezza, ma ritengo che dovrebbe averla verso tutte le persone che veramente la meritano. Sono, però, problemi che non può risolvere un semplice sacerdote e neppure un vescovo. Bisogna che tutta la Chiesa si metta a riflettere su questi casi e, guidata dal Papa, trovi una via di uscita. Dopo di ciò Lei affronta un problema molto importante, dicendo che ai sacerdoti andrebbe tolto l’obbligo del celibato. È una questione delicatissima. Io credo che il celibato sia un grande valore, che rimarrà sempre nella Chiesa: è un grande segno evangelico. Non per questo è necessario imporlo a tutti, e già nelle chiese orientali cattoliche non viene chiesto a tutti i sacerdoti. Vedo che alcuni vescovi propongono di dare il ministero presbiterale a uomini sposati che abbiano già una certa esperienza e maturità (viri probati). Non sarebbe, però, opportuno che fossero responsabili di una parrocchia, per evitare un ulteriore accrescimento del clericalismo. Mi pare molto più opportuno fare di questi preti legati alla parrocchia come un gruppo che opera a rotazione. Si tratta in ogni caso di un problema grave.

E credo che quando la Chiesa lo affronterà avrà davanti anni davvero difficili. Non mancheranno coloro che diranno di aver accettato il celibato unicamente per arrivare al sacerdozio. D’altra parte, sono certo che ci saranno sempre molti che sceglieranno la via celibataria. Perché i giovani sono idealisti e generosi. Inoltre ci sono nel mondo alcune situazioni particolarmente difficili, in alcuni continenti in particolare. Penso però che tocchi ai vescovi di quei Paesi fare presente queste situazioni e trovarne le soluzioni. Lei si domanda anche se non sarebbe più vantaggioso che la consacrazione dei vescovi avvenisse su acclamazione del popolo di Dio. L’elezione dei vescovi è sempre stato un problema difficile nella Chiesa. Nelle situazioni antiche in cui partecipava maggiormente il popolo, si verificavano litigi e molte divisioni. Oggi forse è stata portata troppo in alto loco. Mi ricordo che un canonista cardinale intervenne in una riunione per dire che non era giusto che la Santa Sede facesse due processi per la stessa persona: uno dovrebbe essere fatto in loco e il secondo dal Nunzio. Quanto alla partecipazione della gente, vi sono alcune diocesi in Svizzera e in Germania che lo fanno, ma è difficile dire che le cose vadano senz’altro meglio. In conclusione, si tratta di una realtà molto complessa. Però l’attuale modo di eleggere i vescovi deve essere migliorato. Sono temi sui quali si dovrebbe riflettere molto, e parlare anche di più. Nei sinodi qualcosa emergeva, ma poi non veniva mai approfondito. Il problema, però, esiste e deve potersi fare una discussione pubblica a questo proposito.

CARLO MARIA MARTINI e
LUIGI MARIA VERZÉ
19 maggio 2009

mercoledì 13 maggio 2009

VATICANO - Benedetto XVI in Terrasanta (6) - Celebrazione dei Vespri: “La voce autentica della fede sempre porterà integrità, giustizia, compassione e

Amman (Agenzia Fides) – Nella Cattedrale Greco-Melkita di S. Giorgio ad Amman, alle ore 17.30 di sabato 9 maggio, il Santo Padre Benedetto XVI ha presieduto la Celebrazione dei Vespri secondo il rito greco-melkita, cui hanno partecipato i sacerdoti, i religiosi e le religiose, i seminaristi e i membri di Movimenti ecclesiali. Erano presenti sacerdoti, religiosi e fedeli dei diversi riti cattolici. All’omelia, dopo aver salutato e ringraziato i presenti, il Santo Padre ha ricordato che “la Chiesa stessa è un popolo pellegrino; come tale, attraverso i secoli, è stato segnato da eventi storici determinanti e da pervasive vicende culturali. Purtroppo alcune di queste hanno incluso periodi di disputa teologica o di repressione. Tuttavia vi sono stati momenti di riconciliazione - che hanno fortificato meravigliosamente la comunione della Chiesa - e tempi di ricca ripresa culturale ai quali i Cristiani Orientali hanno contribuito grandemente… L’antico tesoro vivente delle tradizioni delle Chiese Orientali arricchisce la Chiesa universale e non deve mai essere inteso semplicemente come oggetto da custodire passivamente. Tutti i Cristiani sono chiamati a rispondere attivamente al mandato di Dio – come San Giorgio ha fatto in modo drammatico secondo il racconto popolare – per portare gli altri a conoscerlo e ad amarlo”.
Il Papa ha ricordato gli antichi legami con il Patriarcato di Antiochia e il radicamento nel Vicino Oriente, quindi le numerose iniziative di carità che “si estendono a tutti i Giordani – Musulmani e di altre religioni – ed anche al vasto numero di rifugiati che questo regno accoglie così generosamente”. Accostando quindi il primo Salmo (103) dei Vespri - che presenta immagini gloriose di Dio, Creatore generoso, attivamente presente nella sua creazione - e il brano dell’epistola - che mette in guardia sull’esigenza di essere vigili, di essere consapevoli delle forze del male che sono all’opera per creare oscurità nel nostro mondo (cfr Ef 6, 10-20) – il Pontefice ha sottolineato che, al di là dell’apparente contraddizione, “riflettendo sulla nostra ordinaria esperienza umana riconosciamo la lotta spirituale, avvertiamo il bisogno quotidiano di entrare nella luce di Cristo, di scegliere la vita, di cercare la verità. Di fatto, questo ritmo – sottrarci al male e circondarci con la forza di Dio – è ciò che celebriamo in ogni Battesimo, l'ingresso nella vita cristiana, il primo passo lungo la strada dei discepoli del Signore”.
Rivolgendosi quindi ai Vescovi, ai sacerdoti, ai religiosi e alle religiose, ed ai fedeli laici, il Santo Padre ha ricordato che “i rispettivi ruoli di servizio e missione all'interno della Chiesa sono la risposta instancabile di un popolo pellegrino. Le vostre liturgie, la disciplina ecclesiastica e il patrimonio spirituale sono una vivente testimonianza della vostra tradizione che si dispiega. Voi amplificate l'eco della prima proclamazione del Vangelo, ravvivate gli antichi ricordi delle opere di Dio, fate presenti le sue grazie di salvezza e diffondete di nuovo il primo raggio della luce pasquale e il tremolio delle fiamme di Pentecoste”. Citando quindi l’enorme varietà dei lavori apostolici, tutti molto apprezzati, ha messo in evidenza che la loro presenza in questa società “è un meraviglioso segno della speranza che ci qualifica come cristiani” e “tale speranza giunge ben oltre i confini delle nostre comunità cristiane”.
Infine, incoraggiando quanti sono in formazione per il sacerdozio e la vita religiosa, il Papa ha detto: “Guidati dalla luce del Signore Risorto, infiammati dalla sua speranza e rivestiti della sua verità e del suo amore, la vostra testimonianza porterà abbondanti benedizioni a coloro che incontrerete lungo la strada”. Ed ha poi esortato tutti i giovani Cristiani Giordani: “non abbiate paura di dare il vostro contributo saggio, misurato e rispettoso alla vita pubblica del regno. La voce autentica della fede sempre porterà integrità, giustizia, compassione e pace!” (S.L.) (Agenzia Fides 12/5/2009

PAPA/M.O.: CHIESE ORIENTALI HANNO ARRICCHITO FEDE CRISTIANA

(ASCA-AFP) - Amman, 9 mag - Papa Benedetto XVI ha elogiato il contributo delle chiese orientali alla fede cristiana, celebrando i vespri nella cattedrale cattolica greco-melkita nella capitale giordana.

Il pontefice ha affermato che, anche se e' triste che il cristianesimo abbia attraversato periodi di scisma che hanno separato i cattolici dagli ortodossi e dalle altre chiese orientali, le diverse tradizioni hanno arricchito la fede nell'insieme.

''Purtroppo, alcuni di questi periodi hanno incluso tempi di dispute telogiche o periodi di repressione'', ha ricordato il papa nella Cattedrale di San Giorgio alla congregazione, della quale facevano parte l'Arcivescovo greco-ortodosso Benediktos Tsikoras e leader di una serie di chiese orientali legate a Roma.

''Altri, tuttavia, sono stati momenti di riconciliazione - rafforzando incredibilmente la comunione della Chiesa - e tempi di ricca rinascita culturale, alla quale i cristiani orientali hanno contribuito straordinariamente'', ha aggiunto.

Pur riconoscendo l'autorita' del papa, la chiesa melkita segue lo stesso rito utilizzato dalla chiesa greco-ortodossa e usa l'arabo come linguaggio liturgico.

''Chiese particolari all'interno della Chiesa universale dimostrano il dinamismo del suo viaggio sulla terra e mostrano a tutti i fedeli un tesoro di tradizioni spirituali, liturgiche ed ecclesiastiche'', ha spiegato.

Secondo il papa, ''l'antico tesoro vivente di tradizioni della chiese orientali arricchisce la Chiesa universale''.

Il pontefice ha osservato che, sebbene ora le comunita' cristiane siano minoritarie nel Medio Oriente, le loro origini risalgno a una delle roccaforti della prima Chiesa.

''Molti di voi hanno legami con il patriarcato di Antiochia (ora Antakya in Turchia - ndr) e le vostre comunita' sono percio' radicate qui nel Vicino Oriente'', ha sottolineato.

''E, proprio come duemila anni fa e' stato ad Antiochia che i discepoli sono stati chiamati per la prima volta cristiani, cosi' anche oggi, come piccole comunita' sparse in queste terre, anche voi siete riconosciuti come seguaci del Signore'', ha concluso.

Tra le chiese del Medio Oriente, quelle melkita, maronita, armena, siriana e caldea riconoscono l'autorita' del papa e hanno mandato dei rappresentanti alla funzione religiosa di oggi.

Papa/ Un gesuita segretario a congregazione per Chiesa orientali

44 anni, conosce 11 lingue e dirige Pontificio istituto orientale
Città del Vaticano, 7 mag. (Apcom) - Un gesuita slovacco che conosce, oltre alla sua lingua madre, il latino, l'italiano, l'inglese, il russo, l'ucraino, il francese, il tedesco, lo spagnolo, il greco ed il paleoslavo, padre Cyril Vasil', è stato nominato dal Papa segretario della congregazione per le Chiese Orientali. Padre Vasil', 44 anni, assisterà il prefetto, cardinale Leonardo Sandri (in partenza domani con il Papa in Terra Santa), nella guida del dicastero vaticano responsabile dei cattolici di paesi come l'Iraq, il Libano o i territori palestinesi. Rettore del Pontificio istituto orientale, professore all'Università Gregoriana a Roma, alla Facoltà Teologica dell'Università di Bratislava e all'Università di Trnava, dal 2003 è anche Consigliere spirituale federale dell'Unione Internazionale degli Scouts d'Europa. E' autore di numerosi libri ed articoli e collabora con la 'Radio Vaticana'. Il gesuita prende il posto di mons. Antonio Maria Vegliò, nuovo presidente del Pontificio consiglio per la Pastorale dei migranti e degli itineranti.

Cattolici in Terra Santa-Santa Sede



Il viaggio di Benedetto XVI in un paese ostinanatamente chiamato Terrasanta, invece che Israele. I buoni rapporti della Santa Sede con l’Iran, che vorrebbe cancellare lo Stato di Israele dalle cartine geografiche. Sono cose che si tengono: basta aver presente che “la Terra Santa e i suoi luoghi santi appartengono al Cristianesimo, il Vero Israele” (L’Osservatore Romano, 14.5.1948).
“Provvisoriamente”, la rubrica di Luigi Castaldi su Vaticano e dintorni


- UN PO’ DI PASSATO - Nel giorno in cui nasce lo Stato di Israele, L’Osservatore Romano rompe un lungo silenzio e palesa, con amarezza, quali fossero, siano e saranno le pretese della Chiesa in Palestina: “La Terra Santa e i suoi luoghi santi appartengono al Cristianesimo, il Vero Israele“. È il 14 maggio 1948 e da quel momento in poi, la parola Israele diventa un tabù e perfino Paolo VI, primo papa in Terra Santa, riesce a non pronunciarla mai, né prima, né durante, né dopo il suo viaggio nello Stato - appunto - di Israele. La ferita è ancora fresca, diciamo.
“Per quanto riguarda il destino dei luoghi santi e in generale degli interessi cattolici in Palestina, il Vaticano avrebbe preferito che né gli ebrei né gli arabi, ma una terza forza esercitasse il controllo in Terra Santa; in ogni caso, sapeva bene che questa soluzione era irraggiungibile e, nelle presenti circostanze, preferiva gli arabi agli ebrei“, così scriveva, l’8 agosto 1949, il ministro plenipotenziario della Gran Bretagna presso la Santa Sede, John Victor Perowne. La decisione britannica di rimettere il mandato in Palestina era stata della primavera del 1947; la cosa aveva messo il Vaticano in grande difficoltà. Quando se n’era ventilata l’ipotesi, nel 1945, monsignor Thomas McMahon, massimo responsabile della politica vaticana in Medio Oriente, aveva scritto: “La Palestina è internazionale. Un governo internazionale della Palestina [il riferimento, oltre nel testo, era alle Nazioni Unite] è la soluzione migliore fra tutte, perché tutela il carattere sacro della terra natale di Cristo“.
Fin lì, il controllo britannico della regione aveva dato ottime garanzie alla Santa Sede che pure non aveva mancato di esprimere qualche timore, quando la cosa era ancora in discussione presso la Società delle Nazioni nel 1922, per voce del suo Segretario di Stato, il cardinal Pietro Gasparri, ancora una volta sulla possibilità che la posizione ebraica risultasse privilegiata. Poi, le cose s’erano messe per il meglio, e per nessuna delle tre confessioni - cattolica, musulmana ed ebraica - c’era stato di che lamentarsi troppo, almeno non ufficialmente.
Per la Santa Sede l’opzione dell’internazionalizzazione della Palestina poteva essere messa da parte, per essere tirata fuori un quarto di secolo dopo. A opporsi decisamente, allora, furono musulmani ed ebrei e non se ne fece nulla. Come sempre fa, quando non può far sentire la sua voce con la forza che vorrebbe, il Vaticano tacque, si ritirò dai maneggi e lasciò fare, limitandosi a dichiararsi “del tutto indifferenti alla forma di regime che la vostra stimata Commissione [delle Nazioni Unite] potrà proporre, purché nelle vostre proposte conclusive vengano presi in considerazione e tutelati gli interessi della Comunità cattolica, protestante e ortodossa“.
Andava prendendo corpo, però, qualcosa che la Santa Sede temeva più d’ogni altra, e che non si aveva idea di come si potesse ostacolare: la nascita dello Stato di Israele. Sir Alan Cunningham, l’ultimo dei commissari britannici in Palestina, scrisse nel 1947: “La cosa peggiore, dal punto di vista cattolico, è che Gerusalemme finisca sotto il controllo ebraico“. Qualche odierno residuo di screzio tra lo Stato della Città del Vaticano e lo Stato di Israele viene dalla storia certamente, poi chissà se pure dalla teologia. In ogni caso, fino a tutto il 1948, ogni voce vaticana si astenne scrupolosamente dal seppur minimo cenno alla Palestina, cercando di far garante il governo degli Stati Uniti, presso il quale si spese il cardinal Francis Spellman: “Se in ogni caso la spartizione sarà imposta - aveva scritto a George Wadsworth, ambasciatore Usa in Iraq - non bisogna perdere l’occasione di fissare un sistema accuratamente concepito e dettagliato di garanzie e tutele per i luoghi santi e per le minoranze cristiane“.
Seguono anni freddi in ogni senso, fino a quando nel 1967 la Santa Sede si rende conto, insieme al resto del mondo, che gli ebrei intendono difendere il possesso di Israele ad ogni costo, e che ci riescono pure facilmente. Da lì in poi, se non guarita, la ferita è come rimossa, traslata sul piano ecumenico, sicché diventa d’obbligo una nuova posizione verso l’Antico Testamento, e Gesù diventa sempre più ebreo. Sul piano diplomatico, non si può più tardare il riconoscimento dello Stato di Israele, e nel 1993 un papa lo fa: lo riconosce 45 anni dopo la sua nascita, mentre nel 2000 riconosce lo Stato palestinese, ad ora non nato.



Sul Corriere della Sera del 15 febbraio 2000, l’incipit e la chiusa di un articolo a firma di Luigi Accattoli fanno l’affresco storico: “Yasser Arafat viene oggi a Roma, incontra Carlo Azeglio Ciampi e Massimo D’Alema e va per la nona volta in Vaticano: lì assisterà alla firma di un importante «accordo» tra l’Autorità palestinese (di cui è presidente) e la Santa Sede, che dovrebbe avere - nei confronti del mondo palestinese - lo stesso rilievo che ebbe l’accordo del 30 dicembre 1993 con Israele. [...] «Non era necessario che Arafat venisse a Roma per la firma dell’accordo», dicono ancora in Vaticano. È Arafat che ha chiesto di vedere il Papa in questa occasione e Giovanni Paolo II ha accettato di riceverlo «come fa sempre volentieri». Secondo fonti palestinesi, l’accordo conterrebbe anche una clausola su Gerusalemme, nella quale il Vaticano si impegnerebbe a «non riconoscere» eventuali «decisioni unilaterali» di Israele su «Gerusalemme orientale». È nota la posizione vaticana in materia: «Gerusalemme orientale è occupata illegalmente», disse per esempio l’arcivescovo Jean-Marie Tauran - responsabile vaticano dei rapporti con gli Stati - il 23 ottobre del 1998, parlando proprio da Gerusalemme“.
Eccoci ad oggi, o quasi. Nel 2006, il papa, quello che oggi è in pellegrinaggio verso Gerusalemme, arriva a dire - e sono belle soddisfazioni per gli ebrei, cazzarola! - che “lo Stato d’Israele deve poter sussistere pacificamente in conformità alle norme del diritto internazionale” (udienza del 20.1.2006). Nessuno nota che è usato il verbo sussistere invece che il verbo esistere? Sussistere è il verbo che il Concilio Vaticano II ha scelto per significare che la vera Chiesa è la (esiste come) Chiesa cattolica apostolica romana. Lo Stato che si dice “di Israele” - lo Stato che ha per capitale Tel Aviv, perché il diritto internazionale non ha mai riconosciuto come valide le dichiarazioni di Gerusalemme capitale - “deve poter sussistere“: Gerusalemme, almeno «Gerusalemme orientale», non gli è data nel pieno governo.


Un de iure, insomma. Lo Stato di Israele usurperebbe la Terra Santa facendo coincidere la sua capitale con la Gerusalemme che è capitale del “Vero Israele“. I piani sono tenuti separati, così l’ambiguità trova soddisfazione, e la sempre reclamata pretesa sui luoghi santi tradizionalmente affidati ai cristiani (tradizione datata dalle crociate) rimane estensivamente intesa. Sicché il gesuita Samir Khalil Samir, che oggi è il più ascoltato consigliere vaticano per il Medioriente, può tranquillamente dire, nel preparare il viaggio di Benedetto XVI, che “il problema [israelo-palestinese] risale alla creazione dello stato d’Israele e alla spartizione della Palestina nel 1948, decisa dalle grandi potenze senza tener conto delle popolazioni presenti in Terra Santa. È questa la causa reale di tutte le guerre che ne sono seguite. Per porre rimedio a una grave ingiustizia commessa in Europa contro un terzo della popolazione ebrea mondiale, la stessa Europa, appoggiata dalle altre nazioni più potenti, ha deciso e ha commesso una nuova ingiustizia contro la popolazione palestinese, innocente rispetto al martirio degli ebrei“.


- UN PO’ DI PRESENTE - Il virgolettato che chiude il precedente paragrafo è 11tratto dalla newsletter di Sandro Magister del 6.5.2009. Qui vi viene rammentato: “la benevolenza mostrata dal Vaticano nei confronti dell’arcinemico di Israele, l’Iran, durante e dopo la controversa conferenza di Ginevra sul razzismo”; “il silenzio delle autorità vaticane e dello stesso papa sulla proditoria impiccagione a Teheran della giovane iraniana Delara Dalabi“; che l’anno scorso “il presidente Ahmadinejad definì il Vaticano una forza positiva per la giustizia e la pace nel mondo“; e che “una sola volta, e in forma velata, il Vaticano ha stigmatizzato i ripetuti anatemi di Ahmadinejad contro l’esistenza di Israele [...] [nel] lontano 28 ottobre 2005: dopo di allora, silenzio“. Di vostro rammenterete che Ahmadinejad è quello che vorrebbe cancellare Israele dalle carte geografiche, ma quando dice “Israele” intende dire “Stato di Israele“, e questo non dà alcun fastidio al “Vero Israele“. Insomma, non tanto da evitare di scambiare cortesie con l’Iran che impicca gli omosessuali, giusto per fare un esempio. Anzi, può addirittura far mancare la firma del papa alla richiesta di censura ai paesi - fra i quali l’Iran - che considerano l’omosessualità un reato penale.
Sull’altro versante - quello che nel cosiddetto trialogo è il rapporto tra fratello maggiore e fratello minore - vediamo fino a che punto l’ambiguità del “Vero Israele” può fare la confusione dovuta perché un “papa pellegrino” possa presentarsi a Gerusalemme da “crociato disarmato”, visto che le crociate furono dette “pellegrinaggi armati” dai suoi venerabili predecessori: “Nell’Antico Testamento, Dio si era rivelato in modo parziale, in modo graduale, come tutti noi facciamo nei nostri rapporti personali. Ci volle tempo perché il popolo eletto approfondisse il suo rapporto con Dio. L’Alleanza con Israele fu come un periodo di corteggiamento, un lungo fidanzamento. Venne quindi il momento definitivo, il momento del matrimonio, la realizzazione di una nuova ed eterna alleanza. In quel momento Maria, davanti al Signore, rappresentava tutta l’umanità. Nel messaggio dell’angelo, era Dio ad avanzare una proposta di matrimonio con l’umanità. E a nome nostro, Maria disse di sì” (Benedetto XVI, 20.7.2008). Insomma, si può capire perché siano necessari oltre 40.000 uomini per garantire la sicurezza di Sua Santità in Terra Santa: a saper mettere insieme un po’ di presente e un po’ di passato, non mancano ebrei, non mancano musulmani. Solo la nostra ingenuità può farci credere che Benedetto XVI sia andato in Terra Santa per devozione.