Stemma Cardinalizio

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Creato Cardinale 25.05.1985

Storia personale

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TZADUA, Paulos (1921-2003) Birth . August 25, 1921, Addifini, eparchy of Asmara of Eritreans, Eritrea. Education . Seminary of Cheren, Asmara; Italian Lyceum "Ferdinando Martini", Asmara; Catholic University of Sacred Heart, Milan, Italy (doctorate in law). Priesthood . Ordained, March 12, 1944. Pastoral work in Asmara, 1944-1946; in the mission of Guarghe, south of Addis Abeba, 1946-1949. In Eritrea, faculty member, Minor Seminary, 1949-1953; further studies, Asmara, 1949-1953; in Milan, Italy, 1953-1958. Secretary to the bishop of Asmara and to the archbishop of Addis Abeba, 1960-1961. Secretary general of the Episcopal Conference of Ethiopia. In Addis Abeba, pastoral work with university students and service as archdiocesan curia official; faculty member, University of Addis Abeba, 1961-1973.

domenica 18 gennaio 2009

CORNO D’AFRICA

ANALISI. Si stava meglio quando si stava peggio
Rovinati dall’89

Intervista con Claudio Moffa docente di Storia ed istituzioni dei Paesi afroasiatici. Il continente africano è preda di convulsioni mai viste: guerre, carestie, deportazioni di massa. Ed è sempre più ai margini dello sviluppo economico globale del pianeta. Dalla fine dell’era dei due blocchi la deriva continua...

Intervista con Claudio Moffa di Gianni Valente



Il nuovo calvario dell’Africa sembra senza fine. Nel turbinare di guerre e carestie, pulizie etniche e deportazioni di massa che esplodono in ogni angolo del continente, solitamente oscurate dal circuito massmediale, si finisce spesso per perdere di vista il quadro generale. Il professor Claudio Moffa, 50 anni, docente di Storia e istituzioni dei Paesi afroasiatici all’Università di Teramo, offre constatazioni e analisi illuminanti sulle congiunture di fondo che hanno sprigionato il nuovo inferno in cui sembra perdersi il Continente nero.

Un bambino etiope cerca un po’ d’acqua tra i barili. L’acqua sarà alla base dei conflitti del prossimo futuro

Professore, da dove partono i tormenti che dilaniano di nuovo ogni angolo dell’Africa?
CLAUDIO MOFFA: Un punto di svolta decisivo nella storia dell’Africa postcoloniale si colloca tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, in concomitanza con la scomparsa dell’assetto mondiale bipolare e la maturazione di una serie di situazioni economiche dovute ai piani d’aggiustamento strutturale imposti dal Fondo monetario internazionale a diversi Paesi africani. In quella fase si enfatizzarono grandi speranze di sviluppo democratico, si fece circolare un “afro-ottimismo” economico, illusioni di un decollo del continente che – si diceva – avrebbe risolto i problemi e i conflitti che avevano afflitto l’Africa nella fase bipolare. In realtà, è avvenuto il contrario. Nell’ultimo decennio le sofferenze reali dei popoli africani sono aumentate. Per quanto sia, il blocco socialista aveva rappresentato in Africa un deterrente, un fattore di bilanciamento che, ad esempio, aveva favorito lo spazio di manovra dei molti Paesi africani non allineati. Che, non a caso, nei fatti non esistono più. La stessa categoria del non allineamento è sparita dal campo delle definizioni geopolitiche. Se si eccettua il particolare positivo – pur tra mille limiti – della fine dell’apartheid in Sudafrica, il quadro dell’Africa postbipolare è segnato da un drammatico regresso: più guerre di prima, e guerre più sanguinarie di prima con massacri, mutilazioni, nessuna pietà verso le popolazioni civili. Sembra saltato anche quel minimo di remore umanitarie che prima si conservava nei conflitti. E, alla base, c’è un generale peggioramento economico, che alimenta lo scatenarsi delle guerre.
Come si delinea questo legame tra impoverimento economico e aumento delle guerre?
MOFFA: Il debito estero, negli ultimi 15 anni, è stato lo strumento con cui si è fatta pressione sui governi africani affinché privatizzassero e svendessero le risorse nazionali. C’è stato uno smantellamento della spesa pubblica e della vigilanza dello Stato in economia, che in Africa aveva una tradizione anche nei Paesi più lontani dal blocco socialista, visto che la decolonizzazione si era manifestata a livello economico con un forte impulso alla nazionalizzazione delle risorse. Questo saccheggio delle risorse nazionali africane operato dal grande capitale finanziario transnazionale, alimenta per reazione l’ansia di saccheggio delle risorse tra un Paese e l’altro, tra un gruppo etnico e l’altro. La torta è più piccola e si litiga di più. Assistiamo così, negli ultimi dieci anni, a una decomposizione del modello stesso di Stato africano postcoloniale. Aggredito dall’alto dal debito estero internazionale, dal grande capitale finanziario che all’insegna della globalizzazione impone le sue regole e i suoi interessi. E dal basso, dall’esplosione di secessionismi etnici, separatismi che sullo sfondo della tradizionale frammentazione africana si esprimono in forme più estreme che nel passato.
Quali fattori contraddistinguono la nuova esplosione di separatismi su base etnica?
MOFFA: A partire dagli anni Ottanta, si assiste a un mutamento degli equilibri interetnici che riportano in auge vecchi rapporti egemonici di epoca coloniale o addirittura precoloniale. Per fare un esempio scomodo, nella regione dei Grandi Laghi, dopo i massacri tra hutu e tutsi, si assiste a un ritorno al potere della minoranza tutsi, all’imposizione di governi monoetnici che comporta quasi meccanicamente una perdita di democrazia, visto che i tutsi sono una minoranza del 10%. Ma anche nel Corno d’Africa l’indipendenza dell’Eritrea ripristina un confine artificioso, inventato dal colonialismo italiano, che divide tre popolazioni dell’altopiano etiopico, negando quell’accesso al mare alle popolazioni etiopiche che è documentato fin dal regno di Axum. E dentro l’Etiopia stessa, mentre la rivoluzione del ’74, al di là del giudizio sul regime di Menghistu, aveva comportato l’ascesa sociale dell’etnia maggioritaria oromo, adesso, col ritorno al potere di un tigrino, il presidente Meles Zenawi, ridiventa egemone quell’etnia minoritaria tigrina che insieme all’etnia amhara aveva sempre rappresentato in Etiopia il blocco dominante. Davanti a questo fenomeno, anche la politologia terzomondista “progressista” sembra aver perso ogni bussola. Da una parte è afflitta da una sorta di cretinismo guerrigliero, per cui chiunque imbraccia il fucile diventa automaticamente il buono, il partigiano. Dall’altra, è caduta nella trappola del mito astratto e astorico del principio di autodeterminazione dei gruppi etnici, da applicarsi sempre e comunque, e le cui applicazioni hanno in realtà causato disastri immani, come in Iugoslavia. Estremizzando il diritto di autodeterminazione dei gruppi minoritari, che spesso in passato costituivano le élite egemoni, si finisce per non tenere in nessun conto i legittimi diritti dei gruppi maggioritari. In generale, si assiste a un ritorno indietro della storia e della geografia interetnica africana.
Come interferiscono in questo quadro i rapporti di forza internazionali?
MOFFA: Le potenze, ovviamente, intervengono sulla base dei conflitti esistenti. In generale, si può dire che anche in Africa, come nei Balcani, come nelle crisi del Golfo, l’Europa è debole e passiva davanti all’aggressività angloamericana che dilaga, se si eccettua qualche sotterfugio francese come quello di vendere armi all’Etiopia. La strategia americana si presenta con un approccio liberista, quello messo in scena dalla tournée africana di Clinton di due anni fa e scimmiottato dai suoi alleati africani. Si pensi che Museveni, il leader ugandese filo-Usa, se ne uscì due anni fa vantando il flottante della Borsa di Kampala come indice di sviluppo del Paese. Una vera aberrazione, detta dal capo di un Paese con problemi tragici di sottosviluppo. Al di là della propaganda liberista, la politica africana degli States mostra, come accade sugli altri scenari, una sensibilità variabile e a volte ipocrita, che si modella in base ai propri interessi di egemonia. Così, due anni fa, Etiopia ed Eritrea erano ambedue alleati di Washington, e allora Clinton poteva dichiararsi «indifferente» alla guerra. Adesso è l’Eritrea che sembra godere dell’appoggio americano. Gli Usa, nella zona, hanno fatto una scelta di campo individuando come nemico principale il Sudan, visto come il rappresentante di quel blocco islamico demonizzato dall’amministrazione Clinton, molto più che dai precedenti governi repubblicani. Da questo punto di vista, i democratici in politica estera appaiono molto più arretrati e rigidi rispetto alla precedente scuola repubblicana.
Le risorse economiche africane, nello scenario da lei descritto, sono già state vampirizzate dai meccanismi del capitalismo globale, subendo un danno irreversibile. In questo quadro, non si rischia, anche nel mondo cattolico, di esagerare gli effetti positivi della cancellazione del debito estero?
MOFFA: Quando, quindici anni fa, Fidel Castro parlò per la prima volta della cancellazione del debito estero, si trattava di un discorso di assoluta rottura. Oggi, per carità, si deve fare tutto il possibile per cancellare il debito. Ma i 15 anni trascorsi con questa spada di Damocle hanno già prodotto quegli effetti di privatizzazione e di svendita dei patrimoni nazionali che erano stati la conquista della fase alta della decolonizzazione. Il debito estero ha già svolto la funzione storica di ricatto sulle economie del Terzo Mondo, costringendo i governi a svendere all’Occidente le risorse nazionali. Ridurlo adesso, magari per pulirsi la coscienza, è più facile.

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