Stemma Cardinalizio
Storia personale
- Card. Paolos Tzadua
- TZADUA, Paulos (1921-2003) Birth . August 25, 1921, Addifini, eparchy of Asmara of Eritreans, Eritrea. Education . Seminary of Cheren, Asmara; Italian Lyceum "Ferdinando Martini", Asmara; Catholic University of Sacred Heart, Milan, Italy (doctorate in law). Priesthood . Ordained, March 12, 1944. Pastoral work in Asmara, 1944-1946; in the mission of Guarghe, south of Addis Abeba, 1946-1949. In Eritrea, faculty member, Minor Seminary, 1949-1953; further studies, Asmara, 1949-1953; in Milan, Italy, 1953-1958. Secretary to the bishop of Asmara and to the archbishop of Addis Abeba, 1960-1961. Secretary general of the Episcopal Conference of Ethiopia. In Addis Abeba, pastoral work with university students and service as archdiocesan curia official; faculty member, University of Addis Abeba, 1961-1973.
giovedì 5 marzo 2009
Inchiesta. Il governo della curia romana al tempo di Ratzinger: difficoltà e strategie per il dopo “caso Williamson” (Parte I)
La crisi che nelle ultime settimane ha investito violentemente il governo della curia romana - oltre alle critiche ebraiche per la preghiera del venerdì santo reintrodotta col Motu proprio Summorum Pontificum e alle polemiche austriache per le dimissioni che è stato costretto a rendere (sono state accettate ieri dal Papa) il vescovo ausiliare di Linz Gerhard Maria Wagner, importanti sono i malumori per la scomunica revocata ai lefebvriani e al vescovo negazionista quanto alla Shoah Richard Williamson - sembra non aver toccato più di tanto Joseph Ratzinger. Una dimostrazione di ciò la si è avuta sabato scorso. Mentre la maggioranza dei presuli e dei porporati parlava della necessità di “sfruttare” il caso Williamson per mettere in campo quella riforma della curia che porti nei posti di comando gente più capace di tradurre in azioni di governo la mente illuminata del Pontefice, lui, Benedetto XVI, ha preso una decisione che è sembrata andare nella direzione opposta. Invece di mantenere l’accorpamento di due dicasteri sulla cui utilità sono in molti a nutrire dubbi - il pontificio consiglio di Giustizia e Pace e quello per la Pastorale dei Migranti e degli Itineranti - li ha di nuovo smembrati, lasciando al cardinale Renato Raffaele Martino (anche se ancora per poco) Giustizia e Pace e affidando i Migranti e gli Itineranti al segretario della congregazione per le Chiese Orientali, ovvero monsignor Antonio Maria Vegliò, presule di 71 anni compiuti.
Un controsenso, dicono in molti. Possibile? Possibile che il Papa non si renda conto che è di altri interventi che la macchina della Chiesa necessita? Possibile non capisca che quella «sporcizia» che nel 2005 - nella Via Crucis che aveva preceduto di pochi giorni il conclave che lo elesse al soglio di Pietro - aveva denunciato essere presente nella Chiesa, sia ora da spazzare via con atti di comando forti, trancianti? Possibile che non comprenda come, senza un governo capace e competente, azioni come la lectio di Ratisbona, la nomina del polacco Stanislaw Wielgus ad arcivescovo di Varsavia, la revoca della scomunica ai lefebvriani, e ancora (tanto per fare qualche esempio significativo) la puntualizzazione della differenza esistente tra le «chiese» cattoliche e ortodosse e le «comunità» protestanti (quante polemiche seguirono il documento “Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina della Chiesa” redatto nel 2007 dalla congregazione per la Dottrina della Fede!), non possano non essere destinate a subire forti critiche le quali, proprio perché provenienti anche dall’interno della Chiesa, ne minano valore e importanza?
Non si può rispondere a queste domande senza capire come Benedetto XVI concepisca il governo della Chiesa, lui che più di altri cardinali ne conosce meccanismi e ingranaggi. E, per farlo, occorre necessariamente tornare al 1968, a quell’Einführung in das Christentum (Introduzione al cristianesimo), nel quale, a un certo punto (pagine 333-334 dell’edizione Queriniana-Vaticana, 2005), egli scrive queste parole: «I veri credenti non danno mai eccessivo peso alla lotta per la riorganizzazione delle forme ecclesiali. Essi vivono di ciò che la Chiesa è sempre. E se si vuole sapere che cosa realmente sia la Chiesa, bisogna andare da loro. La Chiesa, infatti, non è per lo più là dove si organizza, si riforma, si dirige, bensì è presente in coloro che credono con semplicità, ricevendo in essa il dono della fede che diviene per loro fonte di vita. [...] Ciò non vuol dire che bisogna lasciar tutto così com’è e sopportarlo così com’è. Il sopportare può esser anche un processo altamente attivo…».
Quella di Ratzinger non è una scomunica dell’attività governativa della Chiesa. Ma, semmai, è una presa di coscienza che non è innanzitutto lì, nell’attività di comando, che la Chiesa gioca la sua partita più decisiva. Il Ratzinger Pontefice, l’uomo delle grandi idee, di una visione della modernità filosofica ma insieme religiosa e pneumatica, dell’ancoraggio alla rivelazione, ai padri della Chiesa, il sacerdote che ha vissuto il Vaticano II in pienezza d’effervescenza e che gode di una preparazione teologica sinfonica come pochi all’interno dell’attuale collegio cardinalizio, è ben consapevole del fatto che gli servano i giusti canali per tradurre il proprio pensiero in azioni di governo, ma è anche consapevole che il governo, il comando, non è tutto e soprattutto non è il tutto del suo pontificato. Nonostante vi sia chi ritiene che adesso, nelle scelte che Ratzinger sarà chiamato a prendere nel post “caso Williamson” - perché qualche decisione importante verrà pur presa: sono, infatti, parecchi i capi dicastero in scadenza, e di loro parleremo nelle prossime puntate di questa inchiesta - egli si giochi la credibilità dell’intero pontificato, lui, Benedetto XVI, è invece conscio che la partita più importante si gioca altrove, ovvero nel popolo che crede, che vive la fede con semplicità. Ciò non significa che per il Papa il “lavoro sporco”, quello del governo, sia da disprezzare, ma significa che quest’ultimo risiede su un piano inferiore rispetto alla prima attenzione che tutti, cardinali, vescovi e semplici fedeli debbono avere: la cura della fede, l’unico dono che porta la vita rigenerando e riformando, dall’interno e all’occorrenza, la Chiesa stessa.
Non si può comprendere Benedetto XVI e il suo pontificato senza tornare qui. Ogni analisi sul governo della Chiesa di Ratzinger non può non avere questa premessa. Non per niente, quanto a governo, quanto a spostamento di uomini da un posto all’altro, la pazienza di Ratzinger è proverbiale, a tratti addirittura eccessiva: «sopportazione attiva» è il termine che lui usa in Einführung in das Christentum. Lui è fatto così. Lui che dal 25 novembre 1981 al 19 aprile 2005 è stato prefetto della Dottrina della Fede, il dicastero dove sono custodite pagine e pagine dettagliate riguardanti tutti gli uomini di governo del Vaticano, sulle nomine, su quella riforma della curia attesa e auspicata da tutti e che lui più di altri potrebbe mettere in campo con cognizione di causa, ha deciso d’essere magnanimo. Ha deciso di lasciare in posti cruciali uomini probabilmente meno competenti di altri, al fine di salvaguardare le singole sensibilità di ognuno e, insieme, il desiderio di tutti d’essere, più o meno, utili.
Certo, a volte servirebbe altro. E Ratzinger lo sa, tanto che nelle prossime settimane finalmente qualcosa si muoverà. Anche lui è stato ed è consapevole di quanto ci sarebbe bisogno di una scure per tagliare il marcio e far crescere un nuovo germoglio. Ma spesso ha voluto non agire. Perché lui, Benedetto XVI, preferisce avere pazienza, consapevole - qui sta il punto - che il governo non è tutto e che sopportare può comunque essere un’azione che porta frutti postivi.
E forse, oggi, molti di coloro che accusano il Papa e il suo più stretto collaboratore, il segretario di Stato Tarcisio Bertone, di una certa inefficienza rimpiangendo, nel contempo, il pontificato precedente, farebbero bene a ricordare. Molti di coloro che oggi rimpiangono il governo wojtyliano (sia il primo Wojtyla, quello con Agostino Casaroli segretario di Stato, che il secondo, quello con Angelo Sodano), infatti, sono gli stessi che con Giovanni Paolo II al comando rimpiangevano Paolo VI, Giovani XXIII e, addirittura, Albino Luciani: «Quanto sarebbe potuto avvenire - dicono costoro - se Luciani fosse vissuto più a lungo…». Ma dimenticano che anche il governo di Wojtyla aveva dei punti deboli. Anche Giovanni Paolo II «Il Grande», per usare una definizione coniata dal cardinale Angelo Sodano nella messa di suffragio celebrata per lui il 4 aprile 2005, anche il Papa di un indiscusso carisma e sguardo profetico, dovette fare i conti con una gestione del potere non sempre facile, una gestione che dopo ventisei anni e mezzo di pontificato rappresenta un lascito pesante per le spalle, pur larghe, del suo successore.
Un controsenso, dicono in molti. Possibile? Possibile che il Papa non si renda conto che è di altri interventi che la macchina della Chiesa necessita? Possibile non capisca che quella «sporcizia» che nel 2005 - nella Via Crucis che aveva preceduto di pochi giorni il conclave che lo elesse al soglio di Pietro - aveva denunciato essere presente nella Chiesa, sia ora da spazzare via con atti di comando forti, trancianti? Possibile che non comprenda come, senza un governo capace e competente, azioni come la lectio di Ratisbona, la nomina del polacco Stanislaw Wielgus ad arcivescovo di Varsavia, la revoca della scomunica ai lefebvriani, e ancora (tanto per fare qualche esempio significativo) la puntualizzazione della differenza esistente tra le «chiese» cattoliche e ortodosse e le «comunità» protestanti (quante polemiche seguirono il documento “Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina della Chiesa” redatto nel 2007 dalla congregazione per la Dottrina della Fede!), non possano non essere destinate a subire forti critiche le quali, proprio perché provenienti anche dall’interno della Chiesa, ne minano valore e importanza?
Non si può rispondere a queste domande senza capire come Benedetto XVI concepisca il governo della Chiesa, lui che più di altri cardinali ne conosce meccanismi e ingranaggi. E, per farlo, occorre necessariamente tornare al 1968, a quell’Einführung in das Christentum (Introduzione al cristianesimo), nel quale, a un certo punto (pagine 333-334 dell’edizione Queriniana-Vaticana, 2005), egli scrive queste parole: «I veri credenti non danno mai eccessivo peso alla lotta per la riorganizzazione delle forme ecclesiali. Essi vivono di ciò che la Chiesa è sempre. E se si vuole sapere che cosa realmente sia la Chiesa, bisogna andare da loro. La Chiesa, infatti, non è per lo più là dove si organizza, si riforma, si dirige, bensì è presente in coloro che credono con semplicità, ricevendo in essa il dono della fede che diviene per loro fonte di vita. [...] Ciò non vuol dire che bisogna lasciar tutto così com’è e sopportarlo così com’è. Il sopportare può esser anche un processo altamente attivo…».
Quella di Ratzinger non è una scomunica dell’attività governativa della Chiesa. Ma, semmai, è una presa di coscienza che non è innanzitutto lì, nell’attività di comando, che la Chiesa gioca la sua partita più decisiva. Il Ratzinger Pontefice, l’uomo delle grandi idee, di una visione della modernità filosofica ma insieme religiosa e pneumatica, dell’ancoraggio alla rivelazione, ai padri della Chiesa, il sacerdote che ha vissuto il Vaticano II in pienezza d’effervescenza e che gode di una preparazione teologica sinfonica come pochi all’interno dell’attuale collegio cardinalizio, è ben consapevole del fatto che gli servano i giusti canali per tradurre il proprio pensiero in azioni di governo, ma è anche consapevole che il governo, il comando, non è tutto e soprattutto non è il tutto del suo pontificato. Nonostante vi sia chi ritiene che adesso, nelle scelte che Ratzinger sarà chiamato a prendere nel post “caso Williamson” - perché qualche decisione importante verrà pur presa: sono, infatti, parecchi i capi dicastero in scadenza, e di loro parleremo nelle prossime puntate di questa inchiesta - egli si giochi la credibilità dell’intero pontificato, lui, Benedetto XVI, è invece conscio che la partita più importante si gioca altrove, ovvero nel popolo che crede, che vive la fede con semplicità. Ciò non significa che per il Papa il “lavoro sporco”, quello del governo, sia da disprezzare, ma significa che quest’ultimo risiede su un piano inferiore rispetto alla prima attenzione che tutti, cardinali, vescovi e semplici fedeli debbono avere: la cura della fede, l’unico dono che porta la vita rigenerando e riformando, dall’interno e all’occorrenza, la Chiesa stessa.
Non si può comprendere Benedetto XVI e il suo pontificato senza tornare qui. Ogni analisi sul governo della Chiesa di Ratzinger non può non avere questa premessa. Non per niente, quanto a governo, quanto a spostamento di uomini da un posto all’altro, la pazienza di Ratzinger è proverbiale, a tratti addirittura eccessiva: «sopportazione attiva» è il termine che lui usa in Einführung in das Christentum. Lui è fatto così. Lui che dal 25 novembre 1981 al 19 aprile 2005 è stato prefetto della Dottrina della Fede, il dicastero dove sono custodite pagine e pagine dettagliate riguardanti tutti gli uomini di governo del Vaticano, sulle nomine, su quella riforma della curia attesa e auspicata da tutti e che lui più di altri potrebbe mettere in campo con cognizione di causa, ha deciso d’essere magnanimo. Ha deciso di lasciare in posti cruciali uomini probabilmente meno competenti di altri, al fine di salvaguardare le singole sensibilità di ognuno e, insieme, il desiderio di tutti d’essere, più o meno, utili.
Certo, a volte servirebbe altro. E Ratzinger lo sa, tanto che nelle prossime settimane finalmente qualcosa si muoverà. Anche lui è stato ed è consapevole di quanto ci sarebbe bisogno di una scure per tagliare il marcio e far crescere un nuovo germoglio. Ma spesso ha voluto non agire. Perché lui, Benedetto XVI, preferisce avere pazienza, consapevole - qui sta il punto - che il governo non è tutto e che sopportare può comunque essere un’azione che porta frutti postivi.
E forse, oggi, molti di coloro che accusano il Papa e il suo più stretto collaboratore, il segretario di Stato Tarcisio Bertone, di una certa inefficienza rimpiangendo, nel contempo, il pontificato precedente, farebbero bene a ricordare. Molti di coloro che oggi rimpiangono il governo wojtyliano (sia il primo Wojtyla, quello con Agostino Casaroli segretario di Stato, che il secondo, quello con Angelo Sodano), infatti, sono gli stessi che con Giovanni Paolo II al comando rimpiangevano Paolo VI, Giovani XXIII e, addirittura, Albino Luciani: «Quanto sarebbe potuto avvenire - dicono costoro - se Luciani fosse vissuto più a lungo…». Ma dimenticano che anche il governo di Wojtyla aveva dei punti deboli. Anche Giovanni Paolo II «Il Grande», per usare una definizione coniata dal cardinale Angelo Sodano nella messa di suffragio celebrata per lui il 4 aprile 2005, anche il Papa di un indiscusso carisma e sguardo profetico, dovette fare i conti con una gestione del potere non sempre facile, una gestione che dopo ventisei anni e mezzo di pontificato rappresenta un lascito pesante per le spalle, pur larghe, del suo successore.
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