Stemma Cardinalizio
Storia personale
- Card. Paolos Tzadua
- TZADUA, Paulos (1921-2003) Birth . August 25, 1921, Addifini, eparchy of Asmara of Eritreans, Eritrea. Education . Seminary of Cheren, Asmara; Italian Lyceum "Ferdinando Martini", Asmara; Catholic University of Sacred Heart, Milan, Italy (doctorate in law). Priesthood . Ordained, March 12, 1944. Pastoral work in Asmara, 1944-1946; in the mission of Guarghe, south of Addis Abeba, 1946-1949. In Eritrea, faculty member, Minor Seminary, 1949-1953; further studies, Asmara, 1949-1953; in Milan, Italy, 1953-1958. Secretary to the bishop of Asmara and to the archbishop of Addis Abeba, 1960-1961. Secretary general of the Episcopal Conference of Ethiopia. In Addis Abeba, pastoral work with university students and service as archdiocesan curia official; faculty member, University of Addis Abeba, 1961-1973.
lunedì 2 febbraio 2009
L'opera dei frati cappuccini in Etiopia
Un villaggio ad Addis Abeba per i profughi cristiani
di Egidio Picucci
Addis Abeba - nuovo fiore, in aramaico, quasi fosse un villaggio delle fiabe - dovrebbe mutar nome, tanto è cambiata in poco più di un secolo e mezzo di vita. Il cielo è lo stesso di quando monsignor Guglielmo Massaja, ospite riluttante dell'amico Menelik, re dello Shoa, verso il 1879 tirò su le prime capanne attorno alle sorgenti termali di Finfinni. Cielo d'un azzurro-oltremare, proprio delle altitudini, solcato di nubi maestose, senza peso. Ma la terra è di uno squallore inquietante e la popolazione tra le più povere del continente. Soprattutto nelle periferie, dove il vento spinge i gas velenosi del traffico cittadino e dove si ammassano quasi tutte le tribù del Paese. Gente accorsa dai villaggi perduti sulle Ambe in cerca di una vita più umana, e che si è invece ritrovata a condividere la terra irta di spineti nudi e torti con gli scampati allo sfascio dell'esercito del dittatore Menghistu e con le famiglie dei soldati morti nella guerra con l'Eritrea, territorio etiopico fino al 1993.
Le autorità - fiere del Museo nazionale in cui si conservano i resti di Lucy (donna vissuta almeno 3,2 milioni di anni fa che la gente chiama dinqinesh, tu sei meravigliosa) e che la città sia stata prima sede dell'Organizzazione per l'Unità Africana (1963), poi dell'Unione Africana (2002) - per qualche tempo ha ignorato il fatto, poi ha promesso una sistemazione più dignitosa. Ma il campo profughi è rimasto per più di dieci anni chiuso in un cerchio di eucaliptus, al riparo di un capannone senza pareti e il tetto scoperchiato dal vento. Nessun problema per il giorno, caldo e ventilato, ma problemi a non finire nelle fredde notti tropicali, quando il termometro, sui 2.500 metri di Addis Abeba - terza capitale più alta del mondo dopo La Paz e Quito - scende a livelli d'una sola cifra.
La lentezza delle istituzioni (comune a tanti Paesi africani) si è scontrata con la sollecita carità dei frati cappuccini, i quali hanno prima fatto un censimento dei profughi (350 persone, tra cui 43 vedove e 65 bambini da 0 a 10 anni) poi hanno deciso di costruire con la loro collaborazione il Ye selam mender, il villaggio della pace.
Il Governo ha ceduto gratuitamente un vasto appezzamento di terra dalle parti di Bebrezeit, a condizione che vicino al mender si costruisse anche una scuola materna e una scuola elementare. Condizione inutile, perché i missionari nella loro opera hanno sempre privilegiato l'attività educativa. Dato che le condizioni dei profughi non consentivano indugi - "vivevano miseramente, difendendosi dal freddo con sacchi di iuta, cartoni e stuoie di bambù", ha ricordato padre Angelo Pagano, superiore della vice provincia cappuccina d'Etiopia - è stato necessario costruire subito un certo numero di baracche in cui sistemarli. Nel frattempo si è messo mano al villaggio, realizzato nel giro di quattro anni con l'aiuto di migliaia di benefattori italiani (soprattutto lombardi) ai quali i religiosi si sono rivolti con le parole di san Francesco quando mendicava pietre per ricostruire la chiesetta di San Damiano: "Chi mi darà una pietra avrà una benedizione; chi mi darà due pietre avrà due benedizioni...".
Nell'autunno scorso il mender è stato inaugurato e consegnato a 48 famiglie. "Quando Dio vuole aiutare - ha detto una donna - non viene direttamente di persona, ma si serve di strumenti secondari. Per noi si è servito dei frati cappuccini e di tanti benefattori che non consociamo, ma grazie ai quali, qualora dovessi morire, morirei con il conforto di vedere i miei figli non più sotto una tettoia aperta al vento, ma dentro una casa tutta per loro".
Padre Angelo ha voluto che la benedizione e la consegna del villaggio - rimane da completare l'ultimo blocco del progetto - fossero precedute dalla celebrazione eucaristica, anche se la maggior parte delle famiglie che ne usufruiranno sono ortodosse o protestanti. "Non è consuetudine - ha detto - iniziare una cerimonia come questa con la santa messa; però la realizzazione di quest'opera è dovuta all'aiuto di Dio in cui tutti crediamo. È giusto, quindi, ringraziarlo insieme". Apprezzamenti benevoli sono venuti anche dalle autorità etiopiche e dall'ambasciatore italiano in Addis Abeba, l'uno grato "per l'esempio di collaborazione che viene dalla Chiesa cattolica", l'altro "per l'efficienza della collaborazione tra l'Etiopia e l'Italia".
Il villaggio ha, per ora, 48 appartamenti, dati in affitto ad altrettante famiglie che si sono impegnate a pagare un cifra simbolica che servirà per le spese del villaggio; a restituire l'appartamento qualora trovassero un'altra sistemazione; a rispettare le regole per una convivenza pacifica, pena l'allontanamento dal villaggio stesso.
"La Chiesa cattolica - ha detto padre Angelo alle autorità - lavora qui e altrove perché si sente universale, perché ha fatto suo il comandamento dell'amore predicato da Cristo; perciò non bisogna aver paura di essa. Non vuole privilegi, ma neppure che le si impedisca di impegnarsi per lo sviluppo (è di questi giorni una legge che limita l'attività nel Paese delle organizzazioni non governative straniere, n.d.r.) per il quale chiede la collaborazione di tutti".
di Egidio Picucci
Addis Abeba - nuovo fiore, in aramaico, quasi fosse un villaggio delle fiabe - dovrebbe mutar nome, tanto è cambiata in poco più di un secolo e mezzo di vita. Il cielo è lo stesso di quando monsignor Guglielmo Massaja, ospite riluttante dell'amico Menelik, re dello Shoa, verso il 1879 tirò su le prime capanne attorno alle sorgenti termali di Finfinni. Cielo d'un azzurro-oltremare, proprio delle altitudini, solcato di nubi maestose, senza peso. Ma la terra è di uno squallore inquietante e la popolazione tra le più povere del continente. Soprattutto nelle periferie, dove il vento spinge i gas velenosi del traffico cittadino e dove si ammassano quasi tutte le tribù del Paese. Gente accorsa dai villaggi perduti sulle Ambe in cerca di una vita più umana, e che si è invece ritrovata a condividere la terra irta di spineti nudi e torti con gli scampati allo sfascio dell'esercito del dittatore Menghistu e con le famiglie dei soldati morti nella guerra con l'Eritrea, territorio etiopico fino al 1993.
Le autorità - fiere del Museo nazionale in cui si conservano i resti di Lucy (donna vissuta almeno 3,2 milioni di anni fa che la gente chiama dinqinesh, tu sei meravigliosa) e che la città sia stata prima sede dell'Organizzazione per l'Unità Africana (1963), poi dell'Unione Africana (2002) - per qualche tempo ha ignorato il fatto, poi ha promesso una sistemazione più dignitosa. Ma il campo profughi è rimasto per più di dieci anni chiuso in un cerchio di eucaliptus, al riparo di un capannone senza pareti e il tetto scoperchiato dal vento. Nessun problema per il giorno, caldo e ventilato, ma problemi a non finire nelle fredde notti tropicali, quando il termometro, sui 2.500 metri di Addis Abeba - terza capitale più alta del mondo dopo La Paz e Quito - scende a livelli d'una sola cifra.
La lentezza delle istituzioni (comune a tanti Paesi africani) si è scontrata con la sollecita carità dei frati cappuccini, i quali hanno prima fatto un censimento dei profughi (350 persone, tra cui 43 vedove e 65 bambini da 0 a 10 anni) poi hanno deciso di costruire con la loro collaborazione il Ye selam mender, il villaggio della pace.
Il Governo ha ceduto gratuitamente un vasto appezzamento di terra dalle parti di Bebrezeit, a condizione che vicino al mender si costruisse anche una scuola materna e una scuola elementare. Condizione inutile, perché i missionari nella loro opera hanno sempre privilegiato l'attività educativa. Dato che le condizioni dei profughi non consentivano indugi - "vivevano miseramente, difendendosi dal freddo con sacchi di iuta, cartoni e stuoie di bambù", ha ricordato padre Angelo Pagano, superiore della vice provincia cappuccina d'Etiopia - è stato necessario costruire subito un certo numero di baracche in cui sistemarli. Nel frattempo si è messo mano al villaggio, realizzato nel giro di quattro anni con l'aiuto di migliaia di benefattori italiani (soprattutto lombardi) ai quali i religiosi si sono rivolti con le parole di san Francesco quando mendicava pietre per ricostruire la chiesetta di San Damiano: "Chi mi darà una pietra avrà una benedizione; chi mi darà due pietre avrà due benedizioni...".
Nell'autunno scorso il mender è stato inaugurato e consegnato a 48 famiglie. "Quando Dio vuole aiutare - ha detto una donna - non viene direttamente di persona, ma si serve di strumenti secondari. Per noi si è servito dei frati cappuccini e di tanti benefattori che non consociamo, ma grazie ai quali, qualora dovessi morire, morirei con il conforto di vedere i miei figli non più sotto una tettoia aperta al vento, ma dentro una casa tutta per loro".
Padre Angelo ha voluto che la benedizione e la consegna del villaggio - rimane da completare l'ultimo blocco del progetto - fossero precedute dalla celebrazione eucaristica, anche se la maggior parte delle famiglie che ne usufruiranno sono ortodosse o protestanti. "Non è consuetudine - ha detto - iniziare una cerimonia come questa con la santa messa; però la realizzazione di quest'opera è dovuta all'aiuto di Dio in cui tutti crediamo. È giusto, quindi, ringraziarlo insieme". Apprezzamenti benevoli sono venuti anche dalle autorità etiopiche e dall'ambasciatore italiano in Addis Abeba, l'uno grato "per l'esempio di collaborazione che viene dalla Chiesa cattolica", l'altro "per l'efficienza della collaborazione tra l'Etiopia e l'Italia".
Il villaggio ha, per ora, 48 appartamenti, dati in affitto ad altrettante famiglie che si sono impegnate a pagare un cifra simbolica che servirà per le spese del villaggio; a restituire l'appartamento qualora trovassero un'altra sistemazione; a rispettare le regole per una convivenza pacifica, pena l'allontanamento dal villaggio stesso.
"La Chiesa cattolica - ha detto padre Angelo alle autorità - lavora qui e altrove perché si sente universale, perché ha fatto suo il comandamento dell'amore predicato da Cristo; perciò non bisogna aver paura di essa. Non vuole privilegi, ma neppure che le si impedisca di impegnarsi per lo sviluppo (è di questi giorni una legge che limita l'attività nel Paese delle organizzazioni non governative straniere, n.d.r.) per il quale chiede la collaborazione di tutti".
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