Stemma Cardinalizio

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Creato Cardinale 25.05.1985

Storia personale

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TZADUA, Paulos (1921-2003) Birth . August 25, 1921, Addifini, eparchy of Asmara of Eritreans, Eritrea. Education . Seminary of Cheren, Asmara; Italian Lyceum "Ferdinando Martini", Asmara; Catholic University of Sacred Heart, Milan, Italy (doctorate in law). Priesthood . Ordained, March 12, 1944. Pastoral work in Asmara, 1944-1946; in the mission of Guarghe, south of Addis Abeba, 1946-1949. In Eritrea, faculty member, Minor Seminary, 1949-1953; further studies, Asmara, 1949-1953; in Milan, Italy, 1953-1958. Secretary to the bishop of Asmara and to the archbishop of Addis Abeba, 1960-1961. Secretary general of the Episcopal Conference of Ethiopia. In Addis Abeba, pastoral work with university students and service as archdiocesan curia official; faculty member, University of Addis Abeba, 1961-1973.

giovedì 10 febbraio 2011

Radio Vaticana




Fu progettata da Marconi su incarico papale. Fu inaugurata da Pio XI nel 1931. E’ la seconda radio internazionale più vecchia del mondo, dopo la Bbc. Oggi è ascoltata tramite il web in occidente ma anche in onda corta, con mezzi molto precari, fra le comunità aborigene dell’America latina.

E’ la Radio vaticana, che il 12 febbraio compie 80 anni. Di lei Avvenire parla così.

di Luigi Cobisi

Vaticana: 80 anni “in onda”

La sera del 12 febbraio 1931, dopo che il Santo Padre ebbe terminato il suo primo radiomessaggio – immediatamente tradotto in diverse lingue – l’appena fondata Radio Vaticana fu raggiunta da due studenti del Collegio Etiopico: avevano preparato un riassunto nella loro lingua e desideravano trasmetterlo. Come scrisse il quotidiano La Tribuna due giorni dopo, furono accontentati «con premura, non appena esaurite le precedenti» letture.

È davvero significativo che – alla fine di una giornata dominata dalle grandi personalità di Guglielmo Marconi e Pio XI – si trovasse uno spazio anche per quei due giovani che nessuno aspettava. Nei decenni seguenti analoga «premura» divenne per la radio del Papa un segno costante di una missione esercitata verso gli ascoltatori di 40 lingue diverse, raggiunti in onde medie e corte, in Fm, sui nuovi canali digitali (sistema Dab plus) e via internet. Il microfono passato con immediatezza ai due africani rappresentò la prima ripetizione del gesto compiuto poche ore prima da Marconi, quando, alle 16,30 di quella fredda giornata (a sera sui Giardini Vaticani c’era perfino un’insolita nebbia) consegnò la radio al Papa invitandolo a «voler far sentire la sua augusta parola al mondo». Pio XI si era preparato con attenzione a quel momento e – scelto di esprimersi in latino – si rivolse in tono biblico agli ascoltatori: «Udite e ascoltate, popoli lontani».

L’emozione fu enorme. A Roma, in tutt’Italia e dovunque nel mondo era stato possibile accendere una radio, l’ascolto della voce del Papa fece comprendere la vastità del pubblico cui la nuova emittente si dirigeva. Così fu subito evidente che per raggiungere tutti i «popoli lontani» occorreva un lavoro profondo sulle lingue e le culture di cui quel riassunto portato dagli studenti etiopici fu il primo passo. Riassunto: non una semplice traduzione bensì un lavoro redazionale che, a fianco alla chiara parola del Santo Padre, rappresentò l’inizio di una programmazione originale oggi tipica di ciascuna redazione che può contare su redattori madrelingua e su contatti continui con i rispettivi Paesi. L’Africa continua a giocare, in questo contesto, un ruolo fondamentale.

A fianco di amarico e tigrino, le lingue presenti da ottant’anni alla Radio Vaticana, trasmissioni in swahili, francese, inglese, portoghese coprono complessivamente circa 9 ore al giorno su altrettante frequenze d’onda corta dirette al continente nero, cui si aggiunge l’italiano per integrare un servizio informativo sull’Africa dal sito internet della Radio Vaticana (www.radiovaticana.org) che da circa un anno propone continui aggiornamenti su un’area tanto sensibile del mondo.

Da quando a Roma si sono poi moltiplicate le presenze straniere, la diffusione locale in modulazione di frequenza dei programmi linguistici, che riporta (su 93,30 e 103,80 MHz) lo stesso palinsesto delle onde corte utilizzate per raggiungere ogni parte del mondo, i programmi europei e per l’Oltremare hanno trovato nuovi ascoltatori. Della durata variabile tra i 15 e i 30 minuti questi programmi uniscono alla dimensione globale del messaggio del Pontefice e della Chiesa quella locale di unici programmi in lingua originale fruibili nella capitale con una semplice radiolina.

E d’altra parte la diffusione in Italia della Radio Vaticana, cioè la sua dimensione in parte romana e in parte nazionale, è da sempre un impegno irrinunciabile anche se purtroppo limitato da numerose difficoltà. Poiché la diffusione in onde medie e corte ha subìto pesanti riduzioni anche a causa della questione sul presunto elettrosmog e la Rai ha abolito le trasmissioni per l’estero smantellando i propri impianti in onde corte, l’opera della Radio Vaticana a favore degli ascoltatori italiani si è dovuta appoggiare a un’abilità tecnica che attraverso i diversi mezzi cerca di raggiungere davvero tutti.

La radio del Papa è per molti anche la voce di casa: poter ascoltare in Medio Oriente o in Africa il notiziario vaticano delle 14 in lingua italiana è un contributo fondamentale per gli italiani in quelle aree. Ma nella stessa Italia (e in Europa) le onde corte, vero patrimonio lasciatoci da Marconi e da generazioni di tecnici di primissimo ordine, permettono a tutte le trasmissioni in italiano di essere ascoltate senza difficoltà.

A fianco a queste risorse, la Radio Vaticana ha da tempo avviato la diffusione digitale che ha permesso al proprio canale in italiano (105 Live) di coprire quasi tutto il Paese attraverso il circuito Eurodab Italia. Per quanto la radio digitale non abbia ancora raggiunto in Italia uno sviluppo significativo, sono numerosi gli ascoltatori dotati di ricevitori Dab Plus solo per sentire Radio Vaticana: un pubblico fedele, per lo più silenzioso, che cerca una voce diversa, capace di prudenza e discernimento, poiché – come disse Benedetto XVI 5 anni fa visitando l’emittente – nel «mondo dei mezzi della comunicazione non mancano anche voci contrastanti. Tanto più è importante che esista questa voce, che vuole realmente mettersi al servizio della verità, di Cristo, e così mettersi al servizio della pace e della riconciliazione nel mondo».

Pubblicato su palazzoapostolico.it mercoledì 9 febbraio 2011

domenica 30 gennaio 2011

Santo Padre Benedetto XVI riceve in udienza la Comunità del Pontificio Collegio Etiopico

Benedetto XVI alla comunità del Pontificio Collegio Etiopico in Vaticano

La santità dei sacerdoti
segno di speranza per la Chiesa


La santità dei sacerdoti come segno di speranza per la Chiesa e per il mondo è stata proposta dal Papa alla comunità del Pontificio Collegio Etiopico in Vaticano, durante l'udienza svoltasi sabato mattina, 29 gennaio, nella Sala dei Papi. L'occasione è stata la ricorrenza del centocinquantesimo anniversario della morte di san Giustino De Jacobis, del quale Benedetto XVI ha illustrato l'esemplarità. Questo il discorso.

Cari fratelli e sorelle!
Sono lieto di accogliervi per la felice circostanza del 150° anniversario della nascita al Cielo di san Giustino De Jacobis. Saluto cordialmente ciascuno di voi, cari sacerdoti e seminaristi del Pontificio Collegio Etiopico, che la Divina Provvidenza ha posto a vivere vicino al sepolcro dell'Apostolo Pietro, segno degli antichi e profondi legami di comunione che uniscono la Chiesa in Etiopia ed in Eritrea con la Sede Apostolica. Saluto in modo speciale il Rettore, Padre Teclezghi Bahta, che ringrazio per le cortesi espressioni con cui ha introdotto il nostro incontro, ricordando le diverse e significative circostanze che lo hanno suggerito. Vi accolgo oggi con particolare affetto e, insieme a voi, mi è caro pensare alle vostre comunità di origine.
Vorrei ora soffermarmi sulla luminosa figura di san Giustino De Jacobis, del quale avete celebrato il significativo anniversario lo scorso 31 luglio. Degno figlio di san Vincenzo de' Paoli, san Giustino visse in modo esemplare il suo "farsi tutto a tutti", specialmente al servizio del popolo abissino. Inviato a trentotto anni dall'allora Prefetto di Propaganda Fide, il Cardinale Franzoni, come missionario in Etiopia, nel Tigrai, lavorò prima ad Adua e poi a Guala, dove pensò subito a formare preti etiopi, dando vita ad un seminario chiamato "Collegio dell'Immacolata". Con il suo zelante ministero operò instancabilmente perché quella porzione di popolo di Dio ritrovasse il fervore originario della fede, seminata dal primo evangelizzatore san Frumenzio (cfr. PL 21, 473-80). Giustino intuì con lungimiranza che l'attenzione al contesto culturale doveva essere una via privilegiata sulla quale la grazia del Signore avrebbe formato nuove generazioni di cristiani. Imparando la lingua locale e favorendo la plurisecolare tradizione liturgica del rito proprio di quelle comunità, egli si adoperò anche per un'efficace opera ecumenica. Per oltre un ventennio il suo generoso ministero, sacerdotale prima ed episcopale poi, andò a beneficio di quanti incontrava e amava come membra vive del popolo a lui affidato.
Per la sua passione educativa, specialmente nella formazione dei sacerdoti, può essere giustamente considerato il patrono del vostro Collegio; infatti, ancora oggi questa benemerita Istituzione accoglie presbiteri e candidati al sacerdozio sostenendoli nel loro impegno di preparazione teologica, spirituale e pastorale. Rientrando nelle comunità di origine, o accompagnando i connazionali emigrati all'estero, sappiate suscitare in ciascuno l'amore a Dio e alla Chiesa, sull'esempio di san Giustino De Jacobis. Egli coronò il suo fecondo contributo alla vita religiosa e civile dei popoli abissini con il dono della sua vita, silenziosamente riconsegnata a Dio dopo molte sofferenze e persecuzioni. Fu beatificato dal Venerabile Pio XII il 25 giugno 1939 e canonizzato dal Servo di Dio Paolo VI il 26 ottobre 1975.
Anche per voi, cari sacerdoti e seminaristi, è tracciata la via della santità! Cristo continua ad essere presente nel mondo e a rivelarsi attraverso coloro che, come san Giustino De Jacobis, si lasciano animare dal suo Spirito. Ce lo ricorda il Concilio Vaticano II che, tra l'altro, afferma: "Nella vita di quelli che, sebbene partecipi della nostra natura umana, sono tuttavia più perfettamente trasformati nell'immagine di Cristo (cfr. 2 Cor 3, 18), Dio manifesta vivamente agli uomini la sua presenza ed il suo volto. In loro è Egli stesso che ci parla e ci mostra il contrassegno del suo Regno" (Cost. dog. Lumen gentium, 50).
Cristo, l'eterno Sacerdote della Nuova Alleanza, che con la speciale vocazione al ministero sacerdotale ha "conquistato" la nostra vita, non sopprime le qualità caratteristiche della persona; al contrario, le eleva, le nobilita e, facendole sue, le chiama a servire il suo mistero e la sua opera. Dio ha bisogno anche di ciascuno di noi "per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù" (Ef 2, 7). Nonostante il carattere proprio della vocazione di ciascuno, non siamo separati tra di noi; siamo invece solidali, in comunione all'interno di un unico organismo spirituale. Siamo chiamati a formare il Cristo totale, un'unità ricapitolata nel Signore, vivificata dal suo Spirito per diventare il suo "pleroma" e arricchire il cantico di lode che Egli innalza al Padre. Cristo è inseparabile dalla Chiesa che è il suo Corpo. È nella Chiesa che Cristo congiunge più strettamente a sé i battezzati e, nutrendoli alla Mensa eucaristica, li rende partecipi della sua vita gloriosa (cfr. Lumen gentium, 48). La santità si colloca quindi nel cuore stesso del mistero ecclesiale ed è la vocazione a cui tutti siamo chiamati. I Santi non sono un ornamento che riveste la Chiesa dall'esterno, ma sono come i fiori di un albero che rivelano la inesauribile vitalità della linfa che lo percorre. È bello contemplare così la Chiesa, in modo ascensionale verso la pienezza del Vir perfectus; in continua, faticosa, progressiva maturazione; dinamicamente sospinta verso il pieno compimento in Cristo.
Cari sacerdoti e seminaristi del Pontificio Collegio Etiopico, vivete con gioia e dedizione questo periodo importante della vostra formazione, all'ombra della cupola di San Pietro: camminate con decisione sulla strada della santità. Voi siete un segno di speranza, specialmente per la Chiesa nei vostri Paesi di origine. Sono certo che l'esperienza di comunione vissuta qui a Roma vi aiuterà anche a portare un prezioso contributo alla crescita e alla pacifica convivenza delle vostre amate Nazioni. Accompagno il vostro cammino con la mia preghiera e, per intercessione di san Giustino De Jacobis e della Vergine Maria, vi imparto con affetto la Benedizione Apostolica, che estendo volentieri alle Suore di Maria Bambina, al Personale della Casa e a tutte le persone a voi care.



(©L'Osservatore Romano - 30 gennaio 2011)

martedì 26 ottobre 2010

Preti Sposati Cattolici di Rito Orientale

(ASCA) - Citta' del Vaticano, 23 ott - Il sinodo dei vescovi sul Medio Oriente chiede che i preti sposati delle Chiese cattoliche vengano riconosciuti anche in Occidente, dove i fedeli di rito orientale sono emigrati in gran numero. ''Il celibato ecclesiastico - si legge nella 23.esima delle 'proposizioni' conclusive del Sinodo - e' stimato e apprezzato sempre e dovunque nella Chiesa cattolica, in Oriente come in Occidente. Tuttavia, per assicurare un servizio pastorale in favore dei nostri fedeli, dovunque essi vadano, e per rispettare le tradizioni orientali, sarebbe auspicabile studiare la possibilita' di avere preti sposati fuori dai territori patriarcali''.

lunedì 18 ottobre 2010

Medio Oriente: Sinodo al via «Chiese antiche, sete di futuro»

Oggi si apre l’Assemblea speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei vescovi che durerà fino al 24 ottobre. Avvenire ha intervistato il patriarca di Alessandria dei Copti Antonios Naguib, nominato relatore generale del Sinodo che si tiene sul tema La Chiesa cattolica nel Medio Oriente: comunione e testimonianza.

Beatitudine, perché un Sinodo speciale per il Medio Oriente?
I vescovi del Medio Oriente hanno espresso, in diverse occasioni, alla Santa Sede il desiderio di riunirsi insieme per elaborare una visione comune. E mi rallegro che Benedetto XVI abbia accolto questo desiderio. Tutte le Chiese orientali stanno affrontando sfide fondamentali e sentono l’esigenza di riflettere su quale sia oggi la loro missione e la loro testimonianza e su come rinnovare la loro comunione nel contesto che stanno vivendo.

Intende il difficile contesto politico?
Non solo. Nell’Instrumentum Laboris si parla certamente dei conflitti e guerre che accrescono le ansie dei cristiani, ma ci sono anche congiunture nuove, come la crescita del fondamentalismo, oltre alle questioni relative alle relazioni tra diverse Chiese.

In Occidente si fa fatica a cogliere la molteplicità delle Chiese orientali. Molti vi vedono il segno delle antiche divisioni tra cristiani...
Le divisioni che esistono ancora sono effettivamente un frutto amaro del passato e ciò ci pone delle sfide per cercare di far cadere gli ostacoli all’unità visibile dei cristiani. Tuttavia le Chiese d’Oriente e d’Occidente beneficiano reciprocamente delle loro rispettive tradizioni. La varietà di tradizioni e spiritualità è una grande ricchezza da conservare per tutta la Chiesa.

Uno dei punti cruciali è il rapporto con l’islam. Ha seguito le reazioni musulmane alla convocazione del Sinodo?
Dopo la pubblicazione dell’<+corsivo>Instrumentum Laboris <+tondo>ho letto sulla stampa alcuni commenti negativi, frasi estrapolate dal loro contesto, ma erano tutti firmati da giornalisti noti per la loro opposizione a tutto.

Quale punto contestavano di preciso?
Dicevano che il Vaticano lavora alla creazione di un fronte cristiano contro l’islam. Un giornalista ha lamentato davanti a me «l’insistenza» del Documento sul pericolo islamico. Gli ho risposto che noi ci siamo limitati a descrivere un fatto, l’islam politico, che ha finito per proporre lo slogan «l’islam è la soluzione». Si evoca un periodo in cui la voce di questo islam risultava più alta delle altre. Questo periodo, in verità, non si è concluso, ma questa tendenza non è più l’unica né la più forte. Bisogna fare in modo che nelle nostre società predominino i diritti dell’uomo, la democrazia e l’uguaglianza per scongiurare questo pericolo e il carattere teocratico di molti governi.

Un’altra questione è quella dell’emigrazione. C’è veramente il rischio di un’estinzione del cristianesimo nel Medio Oriente?
C’è una preoccupazione del ritmo inaudito del fenomeno in alcuni Paesi, come l’Iraq. Perciò i Padri sinodali esamineranno il modo di sostenere le comunità, anche attraverso una sensibilizzazione sul «dovere storico» dei cristiani di rimanere nella regione. Solo che non possiamo costringere nessuno a farlo; si tratta di una scelta personale. Fino a pochi decenni fa, le famiglie tentate dall’emigrazione venivano a chiedermi consiglio al patriarcato, mentre ora vengono solo per comunicarmi la loro decisione e chiedere la mia benedizione. Sanno che la Chiesa non incoraggia affatto tale scelta.

E così le Chiese orientali «inseguono» i loro fedeli in diaspora istituendo anche nuove diocesi...
Le Chiese hanno il dovere di assistere spiritualmente, secondo il proprio rito, le famiglie emigrate. Nei Paesi in cui il numero dei fedeli è esiguo lo possono certamente fare attraverso una coordinazione con le diocesi locali o con l’ordinario del luogo. Il punto è che, negli ultimi vent’anni, l’emigrazione si è talmente accelerata da rendere necessario, per alcune Chiese, la creazione di proprie diocesi. Tutto dipende da come viene vista questa molteplicità. Se, come dicevo prima, è una ricchezza per l’intera Chiesa, non vedo perché l’Occidente debba privarsene.

sabato 16 ottobre 2010

Dal Medio Oriente un secolo di diaspora in tutto il mondo

ASSIEME A PIETRO

Sono greco-cattolici come John Sununu e Amine Maalouf, maroniti come Carlos Slim Helù, copti come Onsi Sawiris, protestanti come Edward Said, siro-ortodossi come Paul Anka, armeni come Charles Aznavour e Henri Verneuil. I discendenti dei cristiani orientali noti in Occidente non si contano più. C’è chi ha fatto carriera in politica, chi nell’arte o in letteratura e chi, ovviamente, negli affari. Tuttavia dietro la loro emigrazione non c’era la volontà di perseguire il successo, bensì di sfuggire a condizioni di vita diventate insopportabili. Le ondate migratorie che si sono susseguite da oltre un secolo ne sono la prova. La primissima, avvenuta alla fine dell’Ottocento verso le due Americhe, interessava coloro che volevano liberarsi dell’oppressione ottomana. Fu presto seguita dalla violenta cacciata di armeni e greci dalla Turchia, poi dal massacro degli iracheni assiri negli anni Trenta, quindi dall’espatrio dei palestinesi, poi ancora dall’ondata migratoria dei cristiani durante e dopo la guerra libanese e ora dalla fuga di massa degli iracheni.

Le Chiese orientali sono ancora "orientali", viene da chiedersi? La quantificazione dell’emigrazione – di cui tutti ammettono la consistenza – rimane assai complessa. Di sicuro, contro i dodici milioni cristiani che ancora vivono in Medio Oriente (dall’Egitto all’Iran e dalla Turchia alla Palestina) circa sette milioni vivono ormai fuori. Alcune Chiese orientali, come quella armena e assira, contano già da decenni più fedeli nella "diaspora" che nelle loro terre d’origine. Secondo le statistiche rese note dall’Arab American Institute – diretto dal cristiano libanese James Zogby – gli arabo-americani sono al 63 per cento cristiani, vale a dire circa due milioni 300 mila, cui vanno aggiunti 400 mila armeni.

La crescente emigrazione dei cristiani è attestata anche dalla moltiplicazione delle circoscrizioni ecclesiali e dei luoghi di culto di rito orientale in Occidente. La Chiesa maronita, ad esempio, conta due diocesi negli Stati Uniti con un’ottantina di parrocchie, una diocesi nel Canada con 80 mila fedeli e una in Australia con oltre 160 mila persone. Ma il "bacino storico" dei maroniti rimane l’America Latina, dove si contano tre diocesi (Brasile, Argentina e Messico) che totalizzano diverse centinaia di migliaia di fedeli.

Dalla Siria l’emigrazione dei fedeli cristiani (principalmente melchiti – cattolici e ortodossi – e siriaci) ha toccato all’inizio l’Argentina dove, nel 1905, è sorta a Córdoba la prima chiesa melchita cattolica del Paese. Oggi si trovano cristiani siriani un po’ ovunque, come nel Brasile, Canada, Stati Uniti, Venezuela e Australia. Più euro-orientata appare l’emigrazione dei fedeli siriaci (di nazionalità siriana, ma anche turca), che si trovano concentrati tra la Svezia (la diocesi siro-ortodossa conta una cinquantina di sacerdoti), la Germania (oltre 70 mila fedeli) e i Paesi Bassi.

Anche i fedeli cristiani palestinesi (melchiti e latini) hanno favorito inizialmente l’America. L’area di Detroit per i cristiani di Ramallah, il Cile per quelli di Betlemme. Un aneddoto afferma che «in ogni villaggio cileno si incontrano inevitabilmente tre personaggi: un prete, un poliziotto e un palestinese». L’ex presidente del Salvador, Elías Antonio Saca, è figlio di immigrati di Betlemme, come pure l’ex presidente honduregno Carlos Roberto Flores.

Da qualche anno ha cominciato a vacillare anche la storica resistenza dei cristiani egiziani alla tentazione dell’esodo. Oggi si calcola che circa due milioni di copti vivano in 55 Paesi fuori dall’Egitto. Un dato indicativo di questa emigrazione è la zona di Los Angeles dove, al posto dell’unica chiesa aperta nel 1970, se ne contano oggi una trentina, come pure l’Europa dove si moltiplicano diocesi e monasteri.

Ma la vera emorragia riguarda oggi la Chiesa irachena. La Chaldean Town dell’area metropolitana di Detroit è diventata una moderna Babilonia, con chiese sempre stracolme alla domenica e in cerca continuamente di nuovi spazi per rispondere alla crescita della comunità: 170 mila persone solo nel Michigan. I nuovi arrivi seguono un percorso già battuto da migliaia di loro predecessori, arrivati da Mosul, Baghdad e Telkaif. I caldei rimasti in quest’ultima località sono probabilmente il 2 per cento di quelli chi vi abitavano e se ne sono andati.

Iraq/ Vescovo a Sinodo: Invasione Usa ha portato solo rovine

Mons. Matoka: Cristiani erano 800mila, ora sono la metà

Città del Vaticano, 16 ott. (Apcom) - La "invasione" e la "occupazione" statunitense ha portato "sull'Iraq in generale e sui cristiani in particolare distruzione e rovina a tutti i livelli": è la denuncia di mons. Athanase Matti Shaba Matoka, arcivescovo di Babilonia dei Siri in Iraq, nel corso del sinodo sul Medio Oriente in corso in Vaticano.

"Oggi, dalla rivoluzione di Abd el Karim Kassem l'Iraq non cessa di vivere una situazione d'instabilità, di prove e di guerre, l'ultima delle quali è l'occupazione americana", ha detto il presule nel discorso pronunciato ieri pomeriggio e diffuso oggi. "I cristiani hanno sempre avuto la loro parte nei sacrifici e nelle prove con i martiri nelle guerre e in ogni sorta di prova. Dal 2003 i cristiani sono vittima di una situazione cruenta che ha provocato una grande emigrazione fuori dall'Iraq. Non vi sono statistiche certe, ma gli indicatori evidenziano che la metà dei cristiani ha abbandonato l'Iraq e che senza alcun dubbio rimangono solo circa 400.000 cristiani degli 800.000 che vi vivevano. L'invasione dell'Iraq da parte dell'America e dei suoi alleati ha portato sull'Iraq in generale e sui cristiani in particolare distruzione e rovina a tutti i livelli".

(segue) http://notizie.virgilio.it/notizie/politica/2010/10_ottobre/16/iraq_vescovo_a_sinodo_invasione_usa_ha_portato_solo_rovine,26554638.html

M.O./ Messaggio Sinodo sarà rivolto anche a ebrei e musulmani

Per cammino in comune di cristiani della regione

Città del Vaticano, 16 ott. (Apcom) - E' stata presentata ai padri sinodali, durante l'assemblea speciale in corso in Vaticano sul Medio Oriente, la prima bozza del 'Nuntius', il messaggio finale, che sarà rivolto anche ad ebrei e musulmani.

In dodici paragrafi - rende noto l''Osservatore romano' - il messaggio si rivolge in modo particolare ai fedeli della Chiesa cattolica nel Medio Oriente, senza dimenticare i figli della "diaspora", sottolineando sfide e preoccupazioni, aspettative e attese. Il Nuntius si indirizza però anche ai musulmani e agli ebrei nella speranza di poter iniziare un cammino comune, così come si rivolge alle Conferenze episcopali e a tutte le altre Chiese cristiane, ai Governi e ai responsabili politici per una maggiore presa di coscienza delle problematiche vissute in questa regione da parte di tutta la comunità internazionale.