Stemma Cardinalizio

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Creato Cardinale 25.05.1985

Storia personale

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TZADUA, Paulos (1921-2003) Birth . August 25, 1921, Addifini, eparchy of Asmara of Eritreans, Eritrea. Education . Seminary of Cheren, Asmara; Italian Lyceum "Ferdinando Martini", Asmara; Catholic University of Sacred Heart, Milan, Italy (doctorate in law). Priesthood . Ordained, March 12, 1944. Pastoral work in Asmara, 1944-1946; in the mission of Guarghe, south of Addis Abeba, 1946-1949. In Eritrea, faculty member, Minor Seminary, 1949-1953; further studies, Asmara, 1949-1953; in Milan, Italy, 1953-1958. Secretary to the bishop of Asmara and to the archbishop of Addis Abeba, 1960-1961. Secretary general of the Episcopal Conference of Ethiopia. In Addis Abeba, pastoral work with university students and service as archdiocesan curia official; faculty member, University of Addis Abeba, 1961-1973.

domenica 30 maggio 2010

Tutta la verità su Zeret inferno italiano in Etiopia


di Antonio Marino
Ad usare materialmente i gas proibiti, arsina e yprite, all'imbocco della caverna di Zeret, durante la guerra in Etiopia - uno degli episodi più agghiaccianti di quella campagna - fu un sergente maggiore del plotone chimico della divisione Granatieri di Savoia, Alessandro Boaglio. Tornato in Italia dopo la prigionia in un campo inglese, il sottufficiale non riuscì mai a dimenticare l'orrore di quella giornata e cercò di trasmetterne la memoria rielaborando un suo diario in un quadernetto di memorie coperto di una fitta scrittura a mano. Ritrovato da suo figlio, Giovanni, quel documento di eccezionale interesse è stato trasmesso a un giovane storico, Matteo Dominioni, che con Giovanni Boaglio ne ha ora curato la pubblicazione.
Nell'introduzione al volume, Matteo Dominioni, allievo di Angelo del Boca e autore di "Lo sfascio dell'impero" (studio sul colonialismo italiano in Etiopia, nel quale già venivano approfondite le circostanze e le modalità della strage di Zeret) confessa essergli toccata in sorte una testimonianza unica, invano inseguita per tanto tempo da tanti storici e di non aver mai letto, malgrado anni di ricerche sull'occupazione militare dell'Etiopia, un documento «così crudo» di parte italiana. Sono giudizi che la lettura del diario consente a chiunque di ritenere non iperbolici. Anche se in realtà, accanto alla franca sottolineatura di episodi che gettano una luce tragica sull'occupazione italiana - oltre a quello, centrale, di Zeret, va ricordata almeno la durissima repressione messa in atto a Addis Abeba nel febbraio del '37 dopo l'attentato a Rodolfo Graziani, con lo sconvolgente bilancio di undicimila vittime - il memoriale offre anche il resoconto di una lunga serie di vicende personali, minute, quotidiane, e di scarso rilievo politico-militare, ma di innegabile interesse umano, preziose per capire l'approccio a una realtà così diversa da quella italiana da parte di un giovane soldato.
Dominioni nota esplicitamente come, al contrario di altri, Boaglio non ecceda in esotismo gratuito, ma preferisca lasciarsi andare ogni tanto a qualche notazione bonariamente ironica, che non di rado mostra tutto il distacco fra la retorica ufficiale e le valutazioni quotidiane, personali, degli italiani in colonia. Così, il giovane sottufficiale parla ad esempio di resistenti etiopi visti penzolare dalla forca non come ribelli e banditi, ma come di «eroi dell'altra sponda». Del resto, la realtà appare sotto una serie di altri aspetti assai diversa da come la si vorrebbe presentare. La "barbarie" degli etiopi agli occhi di Boaglio è un'altra cultura, non priva di attrattiva, che egli si dispone ad esplorare frequentando i tucul e cercando addirittura di imparare qualche parola della lingua locale, per entrare in più diretta sintonia con quelli che avrebbero dovuto essere semplicemente i nemici ormai vinti. Lo stesso atteggiamento il sergente maggiore lo riserva ai rapporti di natura più intima con le indigene. Come rileva Dominioni, «l'autore (…) descrive tutta una serie di episodi in contraddizione palese tra quanto auspicato dal regime e invece quanto avveniva nella realtà (…). D'altronde alle autorità del regime non sarebbe stato possibile reprimere un fenomeno di massa e controllare decine di migliaia di giovani. Nei fatti, la legislazione razziale servì per mostrare un volto duro e integerrimo del fascismo ma la cosa più grave è che divenne un deterrente per esercitare un ricatto nei confronti di un vasto numero di persone». Ma il cuore vero del memoriale è la grotta di Zeret. «È - scrive l'autore nell'introduzione - un documento straordinario su una delle più efferate stragi avvenute in Etiopia; è una testimonianza unica nella storia coloniale. Non esistono da parte italiana descrizioni così lucide su una strage. Si consideri inoltre che a scrivere è uno degli esecutori e che egli descrive minuziosamente (...) l'impiego degli aggressivi chimici». In questo capitolo non c'è più traccia dei colori e dei profumi di un Paese esotico, o della sua cultura e delle sue tradizioni, o della sua lingua cantante. C'è solo una cappa pesante di orrore e la consapevolezza dolorosa di esserne gli artefici. L'uso dell'yprite è tale che lo stesso Boaglio ne viene contaminato e viene riconosciuto invalido di guerra. Ma chi è nella grotta si trova in una spaventosa trappola dove l'alternativa è quella di soffocare per l'arsina che la invade o uscire per finire sull'yprite o centrati dalle pallottole degli italiani. La scena da inferno dantesco si conclude tuttavia con una nota di speranza: in mezzo al gas, ai cadaveri, alle teste mozzate, al sangue, una giovane dà alla luce un bambino. È la rivincita della vita sulla follia devastante dell'uomo.

L’Etiopia ridotta alla fame dà cibo ai ricchi Paesi arabi

Il vento sferza seicento schiene quasi tutte piegate a terra, una terra fertile e rigogliosa. I foulard colorati delle operaie svolazzano nel cielo terso della Rift Valley, una cinquantina di chilometri a sud di Addis Abeba. Qui si raccoglie la verdura degli sceicchi, che a Gedda o Dubai pagheranno a caro prezzo i broccoli “Agassi” raccolti da mani callose per una paga di 75 centesimi di euro al giorno. Nel blocco “3 B”, due campi più in là rispetto ai cavolfiori, cresce la lattuga che qualcuno gusterà in una altrettanto costosa insalata servita in un ristorante degli Emirati. La verdura globale si mangia nel Golfo arabo ma cresce in quest’azienda agricola di 70 ettari in Etiopia, uno dei Paesi più affamati dell’Africa con oltre 10 milioni di persone bisognose di assistenza alimentare. Con una dozzina di grandi laghi, altrettanti corsi d’acqua principali e oltre 3,5 milioni di ettari di terra irrigata, l’Etiopia è il «sogno blu» per gli investitori dell’arido Golfo arabo.

I sauditi dal 2015 cesseranno la produzione di cereali sul proprio territorio per decentralizzarla, soprattutto in Africa. Non hanno acqua nel loro deserto. Qui sotto, invece, di acqua ne scorre tanta. «L’irrigazione non è un problema, abbiamo scavato cinque pozzi», spiega Tibebe Demeke, direttore della Jittu, società che da circa un anno coltiva ed esporta ortaggi a foglia verde.
Più che con l’aratro, i campi sembrano tracciati col righello. Accanto alle grandi serre usate per la crescita dei germogli, le file di sedano e prezzemolo sono incastonate in geometrie impeccabili. Passa anche dall’Etiopia la nuova «corsa alla terra» africana. Terra ubertosa ma soprattutto quasi gratuita.

AAA AFFITTASI TERRE
La proprietà dei latifondi resta del governo, ma mezzo secolo d’affitto costa davvero poco agli investitori stranieri. «Pochissimo, quasi nulla» assicura Messele Fisseha, un ricercatore di Addis Abeba. Nell’ordine di una manciata di dollari all’ettaro, per concessioni di decine d’anni su immensi appezzamenti. Gli attivisti lo chiamano “land grabbing”, accaparramento della terra. Ma in Etiopia è lo stesso governo ad offrire – o svendere, secondo alcuni – i suoi campi. «Incoraggiamo gli investitori motivati e seri a impegnarsi nel settore agricolo» si legge sul volantino del ministero dell’Agricoltura e dello Sviluppo rurale. Da pochi mesi è stata creata anche un’apposita «agenzia di sostegno agli investimenti», per convincere società straniere a scommettere pregiata valuta estera (indispensabile al governo) nell’Eldorado verde del Corno d’Africa. Il dicastero etiopico garantisce che dei 74 milioni di ettari coltivabili solo 12 milioni sono usati dai contadini locali. Il resto può soddisfare quelli che l’organizzazione non governativa spagnola Grain definisce «nuovi colonizzatori». Che vengono dal vicino Golfo arabo ma anche da Cina, Egitto, Corea del Sud e India.
Da Bangalore arriva la Karuturi, numero uno al mondo nell’esportazione di rose recise e già attiva in Etiopia nel settore della floricoltura. Nello Stato di Gambella, al confine col Sudan, ha da poco avviato la produzione di riso. Da quelle parti, il governo federale di Addis Abeba mette a disposizione tra gli altri un lotto di 385mila ettari, equivalente da solo alle superfici delle province di Milano e Bergamo.
Su Wellega Road, appena fuori dalla capitale, si vedono le grandi “green house”, le serre usate per floricoltura e orticoltura. Inerpicandosi verso Wenchi, un vulcano spento dove apicoltori e guide turistiche sono sostenute da un progetto dell’italiana Slow Food, appare evidente invece il frazionamento dei piccoli terreni dei contadini: un mosaico dalle mille toppe verdi.

IL PARADOSSO DELL’ARATRO

Scendendo verso la regione del Guraghe, si tagliano valloni fertili e rigogliosi. Visto da quest’angolo dell’Etiopia, non ci si spiega perché il secondo Paese più popoloso dell’Africa non riesca a raggiungere l’autosufficienza alimentare.
«È un paradosso: la maggior parte degli etiopi è costretta a coltivare solo piccoli appezzamenti, su cui a malapena sopravvive» osserva un funzionario dell’ufficio di Addis Abeba della Banca mondiale, che chiede l’anonimato. Spiega che il programma “Safety Net”, finanziato dai donatori internazionali con 500 milioni di dollari l’anno, garantisce cibo o soldi in contanti a 8 milioni di etiopi in cambio di un mese di lavoro all’anno per la loro comunità locale. «Appare evidente – aggiunge – il contrasto tra i grandi lotti ceduti per fini commerciali agli stranieri e i piccoli terreni riservati alla sussistenza per 65 milioni di contadini», su una popolazione di 80 milioni.
Ad Awassa, circa 300 chilometri a sud della capitale, la Saudi Investments del miliardario saudita Mohammed al-Amouni (etiope di nascita) sta costruendo un modernissimo impianto di lavorazione degli ortaggi, in vista di ulteriori acquisizioni fino a mezzo milione di ettari. Nel Guraghe, invece, l’aratro è trascinato dai buoi.

A Getche, non lontano dal capoluogo regionale Welkite, anche la famiglia di Getachew s’affida a due stanche bestie da soma per arare un campicello. Il duro lavoro agricolo permette di sopravvivere dentro un tukul, la tipica capanna a pianta circolare. Sotto lo stesso tetto di fascine di paglie, uno steccato di legno divide i giacigli di questo contadino, dei suoi 5 figli e degli animali. Il bue fa capolino in una sorta di open space, realizzato non per vezzo architettonico ma per necessità di razionalizzare i pochi ambienti a disposizione. Le capanne sono disposte lungo una strada sterrata che il governo sta finalmente iniziando ad asfaltare. Addis Abeba dista tre ore d’auto ma sembra una distanza infinita.

BANANO FINTO E VERO
L’unico presidio sanitario nel raggio di decine di chilometri è un dispensario gestito dalle suore siciliane Figlie della Misericordia e della Croce. Suor Francesca Shurabet, la capo-infermiera etiope, mostra un registro con l’elenco delle prestazioni nel mese di aprile 2010: 84 casi di malaria, di cui quattro falciparum, che qui continua a mietere vittime. «Oltre alle cure di base, forniamo anche un po’ di educazione sanitaria». La religiosa s’infervora quando spiega che qui si coltiva l’Ensete, il cosiddetto falso banano, del tutto simile a quello da frutto ma da cui si ricava invece la farina per il kotcho, un pane tradizionale. «Ho suggerito decine di volte ai contadini di coltivare il vero banano, che garantirebbe un minimo di fabbisogno vitaminico. Ma qui non glielo spiega nessuno». Eppure, riflette, «su questa terra butti un seme e cresce subito». Adesso lo sanno anche i cowboys dell’agrobusiness. Che cavalcano verso la nuova frontiera africana senza perdere tempo.
Emiliano Bos